(in Trusts e attività fiduciarie, 2003, pag. 178 e ss.) di FRANCESCO DI CIOMMO

SOMMARIO: § 1. I problemi di adattamento del trust nell’ordinamento italiano tra omissioni legislative ed incertezze della dottrina. – § 2. Il decreto del tribunale di Belluno del giugno 2002 e l’astrattezza causale dell’atto unilaterale di attribuzione patrimoniale che il disponente compie in favore del trustee. – § 3. La (presunta) invalidità dell’atto di trasferimento dei beni in trust per mancanza di causa. Profili problematici. – § 4. L’unitarietà della vicenda negoziale di trust e l’impossibilità di ridurre l’indagine sulla validità causale dell’attribuzione dei beni in trust alla struttura dell’atto traslativo. Un contributo allo studio dell’atto unilaterale. – § 5. Il c.d. «trust interno» tra natura della convenzione dell’Aja ed autonomia privata.

§ 1. – I problemi di adattamento del trust nell’ordinamento italiano tra omissioni legislative ed incertezze della dottrina.

Che l’introduzione del trust nell’ordinamento italiano – anche in seguito all’entrata in vigore, nel 1992, della Convenzione dell’Aja del 1985, sulla legge applicabile ai trust e sul loro riconoscimento, ratificata dal nostro legislatore con legge ordinaria nel 1989 – non sarebbe stata operazione delle più facili, era ampiamente previsto . Trapiantare, in un sistema di tradizione civilistica, un istituto “nato e cresciuto” in common law, appariva ai più impresa assai delicata . Non a caso, prima del 1992, la nostra giurisprudenza aveva in più occasioni, e sulla scorta di diversi argomenti, negato l’operatività dell’istituto in Italia . Mentre la dottrina, pur evidenziando l’opportunità di rendere disponibile l’utilizzazione del trust ai cittadini italiani, non aveva mancato di rilevare che il tradizionale modello anglosassone presentava caratteristiche sostanzialmente incompatibili con alcuni principi fondamentali del nostro ordinamento privatistico .
Ad accentuare le difficoltà ha pensato il legislatore, il quale, una volta ratificata la suddetta Convezione – che, per inciso, risulta tutt’altro che chiara ed esaustiva –, si è ben guardato dall’emanare norme in grado di favorire l’ambientamento dell’istituto nel nostro ordinamento. La “ingombrante” lacuna normativa ha indotto la dottrina più sensibile ad occuparsi dei diversi problemi, teorici e pratici, sollevati dalla circolazione del modello. Nell’ambito del dibattito che si è così sviluppato, sino a raggiungere proporzioni sino a qualche anno fa inattese, nessuno nega l’esigenza – rectius, l’urgenza – di un intervento legislativo che ponga rimedio ai troppi dubbi interpretativi ed applicativi in materia. In attesa della auspicata panacea, il giurista è, tuttavia, chiamato a confrontarsi con i problemi che quotidianamente la pratica del diritto sottopone alla sua attenzione. Tra i principali, posti dall’operatività dell’istituto in esame nel nostro ordinamento, vanno sicuramente annoverati – oggi che molti dubbi sulla operatività del trust in quanto tale devono ritenersi, per forza di cose, superati dalla entrata in vigore della Convezione dell’Aja – quello relativo alla validità dei trust puramente interni e quello concernente la trascrivibilità dell’istituto in esame.
Su entrambe le questioni ora cennate, la dottrina italiana recentemente aveva dato l’impressione di essersi definitivamente avviata verso posizioni, largamente condivise, di sostanziale apertura, che hanno finito per incoraggiare anche gli operatori . E ciò anche in forza di una prassi giudiziaria ed amministrativa che è apparsa sempre più orientata nel senso di superare le difficoltà pratiche al fine di consentire agli operatori una piena ed efficiente utilizzabilità del trust in Italia .
A rianimare il dibattito che, come detto, sembrava destinato ad approdare in acque sempre più tranquille, sono sopravvenute, nel breve volgere di un anno, due circostanze non trascurabili: la prima, costituita dall’attenzione e dalle polemiche, suscitate dall’intervento critico di un autorevole civilista in tema di trascrivibilità del trust, e sfociate in un interessante confronto a più voci sul tema ; la seconda, rappresentata da una recente pronuncia, di cui si darà conto nei prossimi paragrafi, che mette in discussione la validità dell’atto di attribuzione dei beni in trust rilevandone l’astattezza causale e che nega l’operatività del trust interno in Italia.

§ 2. – Il decreto del tribunale di Belluno del giugno 2002 e l’astrattezza causale dell’atto unilaterale di attribuzione patrimoniale che il disponente compie in favore del trustee.

Con provvedimento emesso in Camera di Consiglio e depositato in data 27 giugno 2002, il tribunale ordinario di Belluno ha respinto il reclamo contro un decreto con il quale, il 9 maggio 2001, il giudice tavolare di Cortina d’Ampezzo aveva rigettato la domanda di intavolazione di un atto di attribuzione di quote di proprietà di un bene immobile ad un soggetto nella sua qualità di trustee.
La vicenda pretoria in parola si rivela emblematica della situazione di incertezza in cui ancora oggi, malgrado gli sforzi della dottrina, il trust versa in Italia. A tacer d’altro, così sarebbe anche soltanto considerando che il giudice tavolare di Cortina ha negato l’intavolazione del medesimo atto che la Conservatoria dei registri immobiliari di Belluno ha, invece, trascritto senza nulla obiettare ; e che il tribunale di Belluno, nel respingere le istanze dei reclamanti, non utilizza argomenti peculiari del regime pubblicitario che viene in rilievo nella fattispecie, e dunque utili a negare l’intavolazione, bensì giustifica il decisum – e quindi conferma che non poteva porsi mano ad alcuna forma di pubblicità – affermando l’invalidità dell’atto che, in esecuzione di un trust precostituito, trasferisce (o pretende di trasferire) diritti al trustee . A tale risultato il decreto in esame giunge sulla base di considerazioni articolate e varie, sulle quali è bene soffermarsi.
Per prima cosa, occorre chiarire che il giudice tavolare di Cortina d’Ampezzo aveva respinto la domanda di intavolazione in quanto il trust, a cui l’atto di trasferimento conseguiva, era interno e dunque vietato perché in contrasto con il principio del numero chiuso dei diritti reali e con il principio della responsabilità patrimoniale generale del debitore. In considerazione di ciò, i reclamanti formulano due obiezioni: la prima, volta a rilevare come per il giudice tavolare «a seguito della ratifica della Convezione dell’Aja del 1° luglio 1985 sarebbe legittima la costituzione in trust di beni siti in Italia, ma attribuiti ad un trust straniero, mentre nel caso concreto la costituzione in trust dei beni immobili in questione dovrebbe ritenersi illegittima per il solo fatto che il trust in esame non sia straniero bensì interno»; la seconda, incentrata sul fatto che la censura dello stesso giudice non riguarda l’atto di trasferimento dei beni al trustee, ma l’atto istitutivo del trust che mai è stato fatto oggetto di domanda di intavolazione e dunque mai è stato «conosciuto né conoscibile» da tale giudice, sicché questi «non avrebbe potuto sapere se il costituente, nonostante il cognome italiano, sia di nazionalità inglese o abbia doppia cittadinanza, o se in concreto operino altri criteri di collegamento, né se il trust in questione persegua o meno scopi vietati dall’ordinamento».
Per rispondere a tal ultima osservazione, il tribunale di Belluno richiama l’art. 4 della Convenzione, a tenore del quale essa non si applica «a questioni preliminari relative alla validità dei testamenti o di altri atti giuridici in virtù dei quali determinati beni sono trasferiti al trustee»; quindi afferma che, in virtù di tale disposizione, «l’atto di trasferimento resta sottoposto (nei profili sia formali che sostanziali) alla legge designata dalle norme di conflitto ordinarie ad esso applicabili», legge che, nel caso di specie, è presumibilmente quella italiana, visto che i reclamanti non hanno indicato elementi di estraneità dell’operazione tali da far ritenere il contrario .
Muovendo da tali corrette premesse, i giudici passano, dunque, a valutare la validità dell’atto di trasferimento alla stregua dell’ordinamento italiano, e qui la loro indagine merita di essere circostanziata e fatta oggetto di riflessione. Essi, infatti, sostengono che «facendo riferimento ai tipi negoziali propri del nostro ordinamento, non si vede a quale schema causale le parti abbiano voluto far riferimento per operare la costituzione di beni in trust»; e concludono ritenendo che «l’atto in esame si configura come negozio astratto di trasferimento», laddove il «nostro ordinamento prevede la causa come requisito di validità del contratto […] e non ammette in via di principio negozi astratti».
Sebbene il decreto in esame si esprima in termini di «astrattezza causale» (e, a ben vedere, astrattezza non ci può essere laddove, ammessa l’operatività del trust in Italia, occorre riconoscere che l’atto di trasferimento trova sua giustificazione causale nella causa fiduciae che regge l’intera operazione ), senza distinguere tra atti unilaterali attributivi e contratti attributivi, il ragionamento seguito dal tribunale di Belluno sembra doversi, più opportunamente, ricondurre alla tesi tradizionale a tenore della quale gli atti unilaterali (tale è, infatti, l’atto di trasferimento di cui, nella fattispecie, si è chiesta la pubblicità) sono, nel nostro ordinamento, sottoposti ad un regime di tipicità, tale per cui, laddove la legge non prevede l’esistenza e l’operatività di un certo atto, questo è da considerarsi invalido.
Già a questo proposito, tuttavia, giova osservare che – come la dottrina più recente non manca di rilevare –, in forza del combinato disposto degli artt. 1324 e 1322 c.c., sembra dato ammettere la costituzione di atti unilaterali atipici, anche traslativi, purché essi conferiscano esclusivamente vantaggi ai beneficiari e salvo la possibilità per questi ultimi di rifiutare l’attribuzione .
Fatta questa precisazione, sia concesso sottolineare sin d’ora che, come più diffusamente si dimostrerà tra breve, il problema dell’atto di cui si chiedeva l’intavolazione nel caso in esame, non concerne propriamente la “astrattezza causale”, bensì la “inidoneità dello schema causale” ad essere considerato conforme al principio, che rappresenta uno dei capisaldi del nostro sistema privatistico, per cui le invasioni della sfera giuridica di terzi possono essere realizzate esclusivamente nella misura in cui producono solo vantaggi a favore di questi ultimi, a meno che non via sia una norma di legge che le permette, ovvero che la fonte del diritto di realizzare tali invasioni non sia rinvenibile in un accordo pregresso tra i soggetti coinvolti nella vicenda negoziale .
Da quanto risulta dal decreto stesso, infatti, l’atto in parola è «una dichiarazione unilaterale con cui il disponente, […] premesso di aver costituito volontariamente e per iscritto con atto autenticato» un trust in conformità alla legge inglese, «ha inteso sottoporre al predetto trust i beni immobili». Tale dichiarazione unilaterale ad effetto attributivo, non solo non incide in termini esclusivamente vantaggiosi sulla sfera giuridica di un soggetto ad essa estranea , e cioè di colui che risulta essere stato nominato trustee, ma, dal punto di vista causale, poggia a sua volta su un altro atto unilaterale (quello istitutivo del trust). Essa appare, per tale ragione, in contrasto con il principio sopra evocato e palesa, dunque, una struttura causale inidonea ad operare validamente nel nostro ordinamento.

§ 3. – La (presunta) invalidità dell’atto unilaterale di trasferimento di beni in trust per astrattezza causale.

Ridotta al suo nucleo essenziale, dunque, la soluzione offerta al caso concreto dalla pronuncia in rassegna – e salvo quanto più avanti ulteriormente si dirà circa il suo impianto teorico – non può certo stupire chi da qualche tempo studia i meccanismi per consentire al trust di operare nell’ordinamento italiano.
Considerato il tenore del citato art. 4 della Convezione, non c’è motivo, infatti, di dubitare della necessità che l’atto di trasferimento dei beni sia conforme alle regole operanti nell’ordinamento giuridico designato dalle norme di conflitto applicabili; così come non c’è dubbio che, per quanto detto nel precedente paragrafo, non sia conforme a tali regole un atto unilaterale atipico produttivo di vantaggi e svantaggi per il terzo. Pensando diversamente, si dovrebbe ammettere che, in forza della ratifica della Convezione dell’Aja, il legislatore italiano ha introdotto nel nostro sistema privatistico un istituto che consente a chiunque di attribuire diritti – sia di natura obbligatoria che di natura reale, tanto su beni mobili, quanto immobili – a soggetti che mai hanno manifestato un consenso nei confronti di tale operazione. Risultato questo il cui raggiungimento non può certo considerarsi necessario ai fini dell’operatività del trust in Italia, visto che l’istituto in parola conosce di norma altre modalità attuative che gli consentono di non incorrere nel difetto riscontrato nel decreto in rassegna. Ciò è a dire che l’atto con il quale il settlor trasferisce i beni nel trust found può benissimo essere, e nella prassi così accade, piuttosto che un atto unilaterale, un contratto.
Chi scrive, già tempo fa, avvertendo circa i rischi derivanti da una trasposizione (per altro non voluta dalla Convezione che, all’uopo, crea un trust c.d. amorfo ) poco ragionata del modello tradizionale anglosassone in un ordinamento di matrice civilistica, evidenziava come – sebbene nel diritto inglese l’atto scritto (il deed of conveyance) che consacra formalmente il trasferimento dell’immobile sia unilaterale e venga executed dall’alienante senza la partecipazione dell’acquirente – non si deve cedere alla tentazione di credere che la vicenda sia riducibile ad un trasferimento voluto esclusivamente dal settlor e realizzato mediante un atto sostanzialmente unilaterale . Del resto, la circostanza per cui, nella tradizione anglosassone, la struttura dell’operazione risulta essere unilaterale, non impedisce di scorgere, dietro l’apparenza formale, la natura sostanzialmente bilaterale della stessa .
Una volta chiarito che l’atto di trasferimento dei beni dal settlor al trustee deve essere conforme alle regole operanti nel nostro ordinamento, occorre riprendere una osservazione già accennata per evidenziare come parlare di astrattezza causale dell’atto di trasferimento, nei termini in cui pone il problema il tribunale di Belluno, appaia sostanzialmente inesatto. In un passaggio fondamentale del decreto, infatti, si legge: «Poiché la causa dell’attribuzione patrimoniale in favore del trustee risulta esterna al negozio traslativo – essendo individuata nello scopo del trust o nella finalità di gestione-amministrazione cui il trustee è tenuto in favore dei beneficiari – l’atto in esame si configura dunque come negozio astratto di trasferimento. Tuttavia, il nostro ordinamento prevede la causa come requisito di validità del contratto e non ammette, in via di principio, negozi astratti».
In verità, qualunque sia la nozione di causa a cui si vuole accedere, l’atto di attribuzione di beni in trust non può essere qualificato astratto . Superato ogni «preconcetto che identifica la causa con il tipo normativo» , è facile constatare, infatti, che tale atto ha un effetto attributivo – di per sé, dal punto di vista causale, neutrale – ed una causa che deve necessariamente ricercarsi nell’operazione di trust, alla cui piena realizzazione esso è finalizzato. In altre parole, la causa che regge l’attribuzione è rinvenibile nell’istituzione del trust, alla quale la stessa attribuzione è funzionale ; essa, a seconda delle preferenze, può rinvenirsi nel primo e necessario atto di esecuzione del programma di trust consistente nel trasferimento dei beni dal settlor al trustee, ovvero, alternativamente, nella causa unitaria del trust e cioè nel passaggio di proprietà di alcuni beni o un certo patrimonio dal settlor al trustee affinché questi li gestisca per un determinato periodo al fine di realizzare uno scopo indicato dal settlor .
Rispetto a tale causa, il nostro legislatore ha, in via generale, manifestato un giudizio di apprezzamento – o, per lo meno, di compatibilità con l’ordinamento civilistico italiano – quando ha ratificato la Convenzione dell’Aja. Ciò perché la normativa internazionale, determinando, in presenza di alcuni presupposti, l’obbligo per i giudici italiani di riconoscere l’operatività del trust, afferma (nemmeno troppo) implicitamente la meritevolezza dell’interesse e l’idoneità dello schema causale (consistente nell’attribuzione di beni ad un soggetto perché questi li amministri per un certo periodo perseguendo le finalità indicate) che tale istituto presuppone . E tale argomento, si badi bene, vale tanto per il trust internazionale quanto per il trust interno, indipendentemente da ogni discorso relativo alla “copertura convenzionale” di quest’ultimo (sul punto, v. § 5), in quanto nessun giudice, nel valutare l’idoneità della causa di un trust, ovvero di uno degli atti in cui tipicamente l’operazione di trust si sviluppa, dovendo prendere atto della ratifica italiana della Convenzione, potrebbe, in via generale, ritenere non idoneo, ai sensi dell’art. 1322 c.c., l’assetto causale di un trust interno (che, per inteso, può sempre manifestare, sotto altre forme o i circostanze particolari, difficoltà di utilizzazione nel nostro ordinamento) .
Stando così le cose, soltanto quando vi sia una dichiarazione di invalidità ex tunc (o rilevata prima della realizzazione dell’atto attributivo) dell’atto istitutivo (la quale, paradossalmente, nella vicenda processuale in esame, è stata ricavata – con una significativa inversione del procedimento di indagine che il giudice avrebbe dovuto seguire – dalla invalidità dell’atto di trasferimento dei beni in trust ), può parlarsi, in riferimento al negozio attributivo, di mancanza di causa, visto che, in assenza di un valido negozio istitutivo di trust, il negozio attributivo perde la possibilità di perseguire la sua funzione originaria , in quanto l’atto istitutivo rappresenta, sotto il profilo causale, un presupposto assolutamente necessario dell’atto in questione (anche quando, dal punto di vista cronologico, sia quest’ultimo a precedere l’atto istitutivo); sebbene non v’è dubbio, alla luce dell’art. 2 della Convenzione, che anche in caso di mancanza o invalidità dell’atto attributivo l’operazione di trust non si perfezioni .
In definitiva, la strada più corretta – in mancanza di ulteriori elementi di riflessione (ma cfr. § 4) – sembrerebbe quella che conduce ad affermare che il trust (la cui istituzione può benissimo avvenire per mezzo di un atto unilaterale, quando non comporti oneri o responsabilità a carico del soggetto nominato trustee ) non possa realizzare tutti i suoi effetti sino al momento in cui i beni che ne formano oggetto non siano trasferiti al trustee con un atto idoneo, e cioè un atto che, nel nostro ordinamento, per quanto detto sinora, sembra debba avere struttura, per lo meno, bilaterale e natura contrattuale, visto che – in ragione delle considerazioni sin qui esposte – non può considerarsi dotato di una struttura causale idonea, ai sensi dell’art. 1322, l’atto unilaterale di attribuzione dei beni in trust.
Ma, a questo punto, si aprono problemi ulteriori. Quid iuris se l’atto di trasferimento unilaterale segue ad un atto istitutivo di trust avente struttura bilaterale, in cui settlor e trustee si accordano preliminarmente su ogni passaggio dell’operazione, sì che non è più possibile ritenere che il trustee sia ancora estraneo a quel trasferimento e che l’atto attributivo, dunque, sia privo di una causa idonea in quanto la sua struttura causale sarebbe lesiva del principio per cui la sfera giuridica privata deve essere sempre salvaguardata da invasioni altrui? Ed inoltre, quale validità e quale efficacia va riconosciuta all’atto istitutivo del trust da cui, indipendentemente dall’attribuzione dei beni in trust, derivino effetti obbligatori in capo al trustee? Ed infine, cosa accade se oggetto dell’atto di trust sono diritti la cui attribuzione non comporta oneri, obblighi o responsabilità a carico dell’avente causa, il quale, non accettando l’attribuzione, non diventa trustee ?

§ 4. – L’unitarietà della vicenda negoziale di trust e l’impossibilità di ridurre l’indagine sulla validità causale dell’attribuzione dei beni in trust alla struttura dell’atto traslativo. Un contributo allo studio dell’atto unilaterale.

E’ bene risolvere rapidamente le questioni formulate nell’ultima parte dello scorso paragrafo per poi svolgere qualche considerazione sulle conseguenze di teoria generale che da tali soluzioni possono ricavarsi.
Nell’ultimo caso prospettato, sembra opportuno riconoscere che quando il soggetto nominato trustee non manifesta, nemmeno nella fase di istituzione del trust, alcuna accettazione, anche se l’attribuzione fatta dal settlor in suo favore non determina il sorgere di svantaggi a suo carico, essa non può essere validamente ricondotta al trust precostituito, in quanto questo – come visto – resta privo di effetti sostanziali sino a quando il trustee non aderisce al programma del settlor, sicché l’attribuzione, per questa via, può, senza dubbio, essere considerata “priva di causa”, giacché, ritenendo altrimenti, dovrebbe ammettersi che il soggetto nominato trustee acquista un diritto, a lui attribuito causa fiduciae, senza che il vincolo fiduciario si instauri.
Viceversa, in relazione alla seconda questione sopra cennata, va sottolineato che quando l’atto istitutivo del trust – il quale può anche essere potenzialmente idoneo a produrre immediatamente effetti obbligatori in capo al trustee – venga da quest’ultimo accettato, esso è pienamente valido e la sua efficacia obbligatoria, nei limiti consentiti in punto di fatto dalla mancanza (momentanea ) dell’attribuzione dei beni nel trust fund, si realizza compiutamente. Infatti, la causa di tale negozio, pur essendo atipica (consistente nella preparazione delle condizioni in cui far funzionare il trust) , non appare in contrasto con alcun principio fondamentale del nostro ordinamento ed anzi – anche alla luce della Convezione – palesa certamente un interesse meritevole di tutela ai sensi dell’art. 1322 .
Rispondendo al primo dei due quesiti appena formulati, può inoltre dirsi che, quando il settlor trasferisce diritti al trustee con un atto unilaterale in esecuzione di un programma condiviso dai due soggetti, non sorge alcun problema di “inidoneità della causa” (men che meno di “astrattezza”) del negozio attributivo, posto che quest’ultimo, come detto, ha una causa propria (consistente nel trasferimento dei beni dal settlor al trust fund) e, valutata nel complesso l’operazione negoziale di trust, non espone il patrimonio del trustee al rischio di invasioni indesiderate, in quanto quest’ultimo ha, già precedentemente, manifestato la sua accettazione alla creazione del vincolo fiduciario.
In conclusione, e sintetizzando, può dunque osservarsi che il trust oggetto della Convezione dell’Aja non ammette una rigida separazione, sotto il profilo della struttura causale dell’operazione negoziale, tra atto istitutivo ed atto attributivo, in quanto – come si evince dalla lettura del primo comma dell’art. 2 della Convezione – esso non è un atto, bensì una situazione che si viene a creare in presenza di determinate condizioni; più tecnicamente, dovrebbe dirsi che esso è un rapporto giuridico , che può essere realizzato anche attraverso atti formalmente separati , ma inscindibilmente uniti sotto il profilo della struttura causale ; rispetto alla quale, l’ordinamento italiano, come detto, ha espresso una volta per tutte il suo favore quando la Convenzione dell’Aja è stata recepita dal nostro legislatore, sicché non può condividersi l’affermazione del tribunale di Belluno, a tenore della quale «facendo riferimento ai tipi negoziali propri del nostro ordinamento, non si vede a quale schema causale le parti abbiano voluto fare riferimento per operare la costituzione di beni in trust. L’atto in questione [quello unilaterale attributivo, n.d.a.] non appare avvicinabile ad alcuno degli schemi negoziali conosciuti dall’ordinamento italiano (vendita, donazione, mandato, ecc.)».
Da tale affermazione, infatti, ad essere rigorosi, si dovrebbe ricavare un corollario importante: anche qualora l’atto attributivo sia costituito da un contratto, esso andrebbe qualificato privo di una causa idonea, e ciò in quanto nel nostro ordinamento (esclusa l’applicabilità al caso in esame dell’art. 1333 c.c. che si riferisce specificamente all’assunzione di obbligazioni ) non esiste un tipo contrattuale con uno schema causale che consente di trasferire a titolo gratuito un diritto reale senza spirito di liberalità (e certamente non è questo lo spirito che anima il trasferimento del settlor a favore del trustee) . L’inaccettabilità di una tale conclusione rappresenta una prova ulteriore di come l’itinerario logico seguito sul punto dai giudici di Belluno non sia condivisibile. Tale conclusione può essere evitata attraverso due argomenti diversi da usarsi alternativamente: il primo, posto che le parti possono di comune accordo dar vita, ai sensi dell’art. 1322, a contratti atipici, purché perseguano interessi meritevoli di tutela da parte dell’ordinamento, un contratto di attribuzione di beni al trustee è sempre ammissibile laddove l’interesse ad esso sotteso sia ritenuto meritevole; il secondo, la legge n. 364 del 16 ottobre 1989, con cui si è data ratifica alla Convenzione dell’Aja, ha, dal 1992, introdotto nel nostro ordinamento un nuovo schema causale tipico, quello di trust, sicché ogni dubbio sulla esistenza e sulla idoneità della causa del contratto di trasferimento, esecutivo del programma di trust, non ha motivo di essere.
A ben vedere, entrambi questi argomenti, che si manifestano decisivi per ammettere la validità del contratto di attribuzione, giocano allo stesso modo a favore dell’atto unilaterale di attribuzione.
Può, dunque, dirsi che anche l’atto unilaterale di attribuzione, quando segue ad una vicenda istitutiva di cui il trustee è stato parte, deve essere considerato senza dubbio idoneo, sotto il profilo causale, ai sensi del combinato disposto degli artt. 1322 e 1324. E ciò in quanto, dal 1992, è stato introdotto per legge in Italia uno schema negoziale – chiamato trust – che, in mancanza di disposizioni contrarie, si deve ritenere possa serenamente svilupparsi attraverso una sequenza di atti, anche atipici, che riveli una struttura causale idonea. Che l’accettazione del trustee sia avvenuta al momento dell’atto istitutivo del trust, ovvero al momento dell’attribuzione dei beni, non rileva, in quanto in entrambi i casi l’operazione manifesterà uno schema causale perfettamente idoneo – salvo ipotesi particolari di illiceità, rilevanti tanto in caso di trust interno, quanto di trust internazionale – ad operare nel nostro ordinamento. Soluzione quest’ultima che suggerisce allo studioso di diritto civile di continuare ad approfondire l’indagine sull’atipicità degli atti unilaterali e sul rapporto tra i sopra citati artt. 1322 e 1324 .

§ 5. – Il c.d. «trust interno» tra natura della Convenzione dell’Aja ed autonomia privata.

Dopo aver dato l’impressione netta di voler affermare l’invalidità dell’atto con il quale gli istanti pretendevano di trasferire i diritti oggetto del trust fund al trustee – e ciò, ritenendo che esso fosse a causa astratta, mentre, come si è visto, esso al più andava considerato a causa non idonea a produrre, ai sensi dell’art. 1322, effetti nel nostro ordinamento soltanto in considerazione del fatto che in tutta l’operazione negoziale giammai il trustee aveva espresso, nelle forme di legge, la sua volontà di accettare l’attribuzione ed il relativo vincolo fiduciario (sicché mancava un elemento strutturale che consentisse di valorizzare la causa fiduciae del negozio attributivo) –, i giudici bellunesi passano a trattare dell’ammissibilità del trust interno in Italia.
Questo passaggio è di fondamentale importanza nell’economia della riflessione che si va conducendo. Infatti, alla luce della seconda parte del decreto, si preferisce credere che le considerazioni sulla presunta astrattezza causale dell’atto attributivo, malgrado la loro formulazione letterale, siano state esclusivamente funzionali a sostenere che il giudice tavolare non potesse valutare la validità dell’atto attributivo senza occuparsi della validità dell’atto istitutivo di trust .
In proposito, il tribunale sostiene che la Convezione dell’Aja, all’art. 13 – in mancanza di un intervento legislativo nazionale atto a produrre nell’ordinamento le modifiche necessarie per permettere il riconoscimento dei trust interni – conferisce ai giudici il potere di non effettuare il riconoscimento di tali trust; potere che questi dovrebbero necessariamente esercitare «nei casi in cui nessuno degli elementi significativi del trust presenti caratteri di estraneità rispetto all’ordinamento italiano». In particolare, il decreto, «riconosciuta alla Convenzione dell’Aja la natura di convenzione di diritto internazionale privato», afferma che essa è applicabile solo in «presenza, nella fattispecie concreta, di elementi oggettivi di estraneità ulteriori rispetto alla mera volontà del disponente di scegliere una legge straniera» .
Nell’impossibilità di soffermarsi diffusamente in questa sede su tutti i motivi per cui non sembra possibile condividere l’atteggiamento preclusivo manifestato dai giudici bellunesi nei confronti del trust interno, giova segnalare come l’itinerario concettuale seguito dal decreto sul punto utilizzi argomenti classici che, come anticipato, da qualche tempo, sembravano essere stati superati in dottrina e giurisprudenza . Rinviando alla copiosa dottrina che in questi ultimi anni ha dimostrato come l’introduzione del trust nel nostro ordinamento – realizzata, particolare non secondario, per legge ordinaria – non violi alcuno dei principi fondanti dello stesso , sembra qui il caso di soffermarsi esclusivamente sull’argomento centrale speso dal decreto in esame, e cioè sulla natura della Convenzione dell’Aja e sul significato dell’art. 13.
Per prima cosa, occorre sottolineare come non corrisponda al vero l’affermazione del collegio a tenore della quale «anche gli autori che accolgono la soluzione più favorevole al trust interno sono infatti costretti ad ammettere che il potere di rifiutare il riconoscimento è legittimamente esercitato quando sia i soggetti, sia i beni, sia lo scopo del trust siano localizzati in uno Stato che non conosce l’istituto». Infatti, se una parte della dottrina sostiene tale tesi, altra dottrina sostiene che il citato art. 13 sia rivolto esclusivamente ai legislatori rappresentando esso una delle c.d. clausole di salvaguardia che, normalmente inserite nelle convenzioni internazionali, consentono, in sede di ratifica, ai legislatori che lo desiderino di paralizzare alcuni effetti del testo che si apprestano a rendere operativo nel proprio ordinamento . La mancanza di un intervento del nostro legislatore sul punto, dunque, non consente ai giudici di svolgere discrezionalmente valutazioni sull’ammissibilità o meno del trust interno del nostro sistema giuridico. Ritenendo diversamente, anche per la mancanza di criteri predeterminati sulla base dei quali svolgere detta valutazione, la certezza del diritto sarebbe travolta dalle dinamiche del dibattito giurisprudenziale.
Appare, allora, più serio l’altro argomento speso nella pronuncia in esame e cioè quello, certamente più radicale e in conflitto con il primo, per cui, visto che la Convezione è di diritto internazionale privato, «è indubitabile che il riconoscimento non può essere operato nei casi in cui nessuno degli elementi significativi del trust presenti caratteri di estraneità rispetto all’ordinamento italiano». Esso, infatti, non riconosce al giudice alcun potere discrezionale in ordine al riconoscimento dei trust considerabili interni ai sensi dell’art. 13. Più serio, si diceva, ma non anche condivisibile.
Come si evince dalla lettura degli atti della sessione della conferenza dell’Aja nel corso della quale è stata partorita la Convenzione, nelle intenzioni dei delegati c’era il proposito iniziale di superare definitivamente le incertezze manifestate in tema di trust dalle corti di civil law . Come già evidenziato in altra sede da chi scrive, «all’inizio dei lavori, sia a livello di comitato di esperti che nella sede diplomatica, l’obiettivo della Convenzione era essenzialmente quello di permettere ai trusts costituiti nei sistemi di common law di operare nei sistemi di civil law ed in particolare nei sistemi dell’Europa continentale occidentale. Sennonché, nel corso dei lavori, e dunque della stesura della Convenzione, si andò oltre il risultato prefissato. Nel clima di fiducia per il trust che nella Conférence si era creato, i rappresentanti degli stati intervenuti pensarono bene di non porre freni ad un istituto che tanto interesse destava in tutto il mondo. Una serie di dati testuali conferma questa tesi. Basta, per adesso, segnalare un elemento […]: la particolarità dell’oggetto della normativa in esame, in quanto istituto non conosciuto nei paesi di civil law, imponeva qualcosa in più della semplice e tradizionale operazione internazional-privatistica di risoluzione dei conflitti tra norme di ordinamento diversi. Sviluppando questa considerazione, appare evidente come la Convenzione, superati gli obiettivi iniziali tipicamente iternazional-privatistici, si sia sviluppata, in alcuni sui aspetti, sostanzialmente, anche se non formalmente, come Convenzione di “diritto uniforme” .
Spiegare perché nella Convenzione dell’Aja siano state introdotte tracce di diritto uniforme è in uno con l’evidenziare come, soprattutto in alcuni settori commerciali e finanziari in espansione sia fortemente sentito il bisogno di uniformità. […Si può, dunque, dire che] la Convenzione va interpretata in modo che la disciplina in sé non nuoccia economicamente a nessuno. Ciò è possibile solo se si ammette che essa lascia, ai singoli stati che non conoscono i trusts, il potere di favorire, non riconoscendo quelli interni, o, al contrario, di neutralizzare, non dimostrando ostilità nei confronti degli stessi, il pericolo di fughe di capitali [verso luoghi in cui il trust è ammesso o verso ordinamenti comunque stranieri sì da mascherare un trust, in origine interno, di internazionalità]. La scelta realizzata dai delegati [e cioè quella di realizzare una disciplina sostanzialmente uniforme in grado di far funzionare nei paesi di civil law anche trust nati in ordinamenti tradizionalmente no-trust] era, in realtà, inevitabile: quale paese di civil law avrebbe altrimenti ratificato, derivando ad esso, da tale ratifica, soltanto uno svantaggio economico?» .
A conferma della bontà di tale interpretazione, viene l’art. 6 della Convenzione, il quale prevede espressamente l’ipotesi che il trust abbia legami stretti con un ordinamento no-trust e che la legge scelta non preveda l’istituzione del trust ; nonché l’art. 15, che fa salve le disposizioni inderogabili del foro in materia di legittima, protezione dei creditori e così via, rappresentando essa una norma tipicamente applicabile a trust strettamente legati ad ordinamenti che non conoscono il trust, dato che dove questo già è disciplinato per legge il rapporto tra l’istituto e quelle disposizioni inderogabili sarà già stato chiarito.
E’ in quest’ottica che va letto il più volte citato art. 13. Esso rappresenta l’espediente tecnico tramite il quale i delegati presso la Conferenza sono riusciti a produrre il massimo risultato (realizzare una disciplina uniforme di base per il trust) senza incorrere nel difetto di eccesso di delega, visto che la norma in parola consente agli stati (e, si badi, non ai giudici o ad altri soggetti ) di non riconoscere effetti ai trust «i cui elementi importanti, ad eccezione della legge da applicare, del luogo di amministrazione e delle residenza abituale del trustee, sono più strettamente connessi a Stati che non prevedono l’istituto del trust o la categoria del trust i questione».
In ogni caso – e comunque, malgrado tutto, la si voglia pensare sull’art. 13 – la via che conduce all’inevitabile riconoscimento dei trust interni è larga abbastanza perché il viandante possa evitare le insidie disseminate lungo il tragitto. In definitiva, infatti, anche a voler ritenere (ma non è l’opinione di chi scrive) che la Convenzione riguardi davvero esclusivamente il trust avente elementi di internazionalità, il giudice, che si trovi a valutare l’idoneità ad operare nel nostro ordinamento di un trust meramente interno, dovrebbe farlo applicando l’art. 1322; operazione che, alla luce delle considerazioni svolte nei paragrafi precedenti, e dunque demistificata, non può, in via generale, portare ad un accertamento della inidoneità dello schema causale, né del trust nella sua interezza, né dei singoli atti in cui esso può svilupparsi, in quanto, sia l’uno che gli altri (v. supra, §§ 3 e 4), manifestano quell’interesse meritevole di tutela che consente all’autonomia privata di produrre effetti giuridici vincolanti per i soggetti coinvolti.
Ciò non toglie che, in concreto, il trust (tanto quello interno, quanto quello internazionale) possa manifestare, di volta in volta, ragioni di contrasto con una o più norme dell’ordinamento italiano quando, ad esempio, venga usato per fini elusivi, ovvero che esso sconti difficoltà operative (cfr. l’interessante dibattito sulla pubblicità della vicenda trust ); in tali circostanze i giudici hanno il dovere di intervenire con gli strumenti che la Convenzione (nel caso la si ritenga applicabile) e/o l’ordinamento nazionale mettono a loro disposizione; la qual cosa conferma come il trust oggi vada inteso e trattato per quello che è: un istituto pienamente operante nel nostro ordinamento che soggiace a tutti i limiti da questo posti all’autonomia privata .

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