(Commento pubblicato in Guida al Diritto de Il Sole 24Ore, 2005, fasc. 12, pag. 39)
Corte di Appello di Roma – sezione I civile – Sentenza 2 novembre 2004-7 marzo 2005 n. 1015
(Presidente Fancelli; Relatore Bonavitacola; Appellanti Giacalone e Stalteri; Appellati Amministrazione dei Monopoli di Stato e Ente Tabacchi Italiani-E.T.I.; Intervenuto Codacons)
LA MASSIMA
Responsabilità civile – Danni al consumatore di prodotti da fumo – Responsabilità del produttore – Natura dell’attività – Pericolosità – Adozione delle misure idonee ad evitare il danno – Mancata prova liberatoria – Presunzione di colpa – Obbligo di risarcimento – Sussistenza (Cc, articolo 2050)
Chi produce e vende tabacchi esercita un’attività pericolosa, ai sensi dell’art. 2050 c.c., per la ragione che i tabacchi contengono in sé una potenziale carica di nocività per il bene salute, ossia per un bene primario dell’uomo, tutelato dalla Carta Costituzionale (art. 32) come diritto fondamentale, sicché – anche in mancanza di norme di legge che prevedono specifici adempimenti – lo stesso è obbligato ad usare ogni cautela per evitare che il rischio si tramuti in danno concreto.
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IL COMMENTO
NATURA INTRINSECAMENTE PERICOLOSA (O DANNOSA?) DELL’ATTIVITA’ DI PRODUZIONE E COMMERCIO DI TABACCHI E CONSEGUENTE (PRESUNZIONE DI) RESPONSABILITA’ DEL PRODUTTORE PER I DANNI SOFFERTI DAL FUMATORE
di
Francesco Di Ciommo
Mentre sui mass-media italiani non si è ancora spenta l’eco delle eterogenee reazioni suscitate dalla recente entrata in vigore della c.d. legge-Sirchia, volta a prevenire l’insorgenza delle patologie ingenerate nell’uomo dal fumo passivo, e cioè dalla respirazione di aria viziata dal fumo altrui; le cronache giudiziarie accendono nuovamente i riflettori sul diverso problema dei danni da fumo attivo, e cioè dei danni causati dal tabacco, non ai terzi, bensì direttamente alla salute dei fumatori.
La notizia dell’ultima ora è rappresentata dalla sentenza 1015/2005, con cui la Corte di Appello di Roma, per la prima volta in Italia, ha condannato al risarcimento dei danni un produttore, e, per essere più precisi, l’E.T.I., Ente Tabacchi Italiani, che detiene il monopolio in Italia della produzione e del commercio di tabacchi, e che recentemente è stato acquistato dalla British American Tobacgo (B.A.T).
Il caso – Nel 1994 la vedova ed il figlio di un uomo, morto nel 1991 a sessantaquattro anni per una neoplasia polmonare, convenivano in giudizio, dinnanzi al Tribunale di Roma, l’Amministrazione dei Monopoli di Stato chiedendone la condanna al risarcimento dei danni morali loro causati dalla perdita del congiunto.
Gli attori giustificavano le loro pretese affermando che tale patologia era stata causata nel loro parente dall’uso di sigarette prodotte e commercializzate dal Monopolio, colpevole di non aver informato i consumatori della natura gravemente nociva del fumo.
Più in particolare, essi esponevano che l’uomo aveva cominciato a fumare nel 1950 ed aveva continuato ininterrottamente sino al 1988, mantenendo una media di circa 20 sigarette al giorno e fumando soltanto sigarette del Monopolio. Essi, inoltre, precisavano che il tumore in parola non era riconducibile ad altre concause, vista e considerata la storia familiare, residenziale e lavorativa del soggetto colpito. E ciò in quanto: nessuno dei suoi familiari aveva mai sofferto di malattie tumorali; ed inoltre, egli aveva vissuto esclusivamente in piccole città ed aveva esercitato sempre la professione di insegnante in scuole agrarie, di talché era da escludere la sua esposizione a significativi inquinamenti ambientali.
La sentenza appellata – Il Tribunale di Roma, con sentenza del 4 aprile 1997 (in «Danno e responsabilità», 1997, 750, n. CAFAGGI), respinse la domanda attorea ritenendo non dimostrabile il nesso di causalità tra il consumo di sigarette e l’insorgenza della neoplasia polmonare, ed inoltre affermando che «in mancanza di una specifica disposizione non è configurabile un dovere di informazione dei produttori di sigarette concernente i pericoli derivanti dal fumo».
Più precisamente, il giudice di prime cure aveva ritenuto che la scienza non era ancora riuscita a spiegare il «meccanismo biologico che causa l’insorgenza della malattia», mentre era certo che i tumori polmonari sono eziologicamente riconducibili a più fattori (inquinamento ambientale, fattori genetici, stress, ecc.) e che gli effetti negativi del fumo sull’organismo sono strettamente collegati esclusivamente al suo abuso; abuso che, peraltro, secondo l’organo decidente, «costituisce una scelta individuale che non può essere addebitata ad altri».
L’appello – Nell’atto di appello gli attori censuravano la sentenza di primo grado, ribadendo l’esistenza di uno stretto rapporto di causalità tra fumo e tumore ai polmoni, nonché evidenziando come l’obbligo di informazione a carico del produttore di sigarette, relativamente ai danni causati dal fumo, doveva ritenersi richiesto già ai sensi degli artt. 32 e 41 della Costituzione, anche prima dell’entrata in vigore della legge n. 428 del 1990 che lo ha introdotto espressamente nel nostro ordinamento, e ciò in quanto l’attività di produzione e commercializzazione di tabacco si palesa intrinsecamente pericolosa per la salute umana.
La causa, dunque, ruota attorno alla possibilità di ritenere responsabili a titolo risarcitorio, per i danni causati ai fumatori, i produttori che – prima dell’entrata in vigore delle norme di legge che dal 1990 – hanno omesso di attivarsi per realizzare tale informazione. Tuttavia, il principio di diritto affermato all’esito del giudizio di secondo grado, e sintetizzato nella massima supra proposta, produce conseguenze che, come meglio si vedrà infra nelle conclusioni, appaiono in grado di riverberarsi oltre le strette maglie degli (omessi) obblighi di informazione, sino a lasciar prefigurare traiettorie futuribili di grande interesse per quanti, anche in questi ultimi anni, e malgrado i moniti (a dir poco) disincentivanti presenti sugli involucri dei prodotti da fumo, si ostinano a proporsi come novelli emuli di Zeno Cosini.
L’Ente Tabacchi Italiani resisteva in giudizio, in via pregiudiziale, negando la propria legittimazione processuale passiva. Quindi, nel merito, rilevando: 1) la mancanza di prove scientifiche certe circa il rapporto di causalità tra uso di tabacco ed insorgenza di patologie tumorali ai polmoni; 2) la possibilità che, nel caso di specie, a determinare il tumore avessero contribuito più concause; 3) la mancanza di intrinseca rischiosità dell’attività di produzione di tabacchi; 4) la diffusa consapevolezza sociale della dannosità di un uso eccessivo di tali prodotti. Per tale ragioni, a detta degli appellati resistenti, in Italia i produttori di sigarette non avevano alcun obbligo di informazione circa la dannosità del prodotto, prima della citata legge del 1990.
La legittimazione processuale del Codacons e dell’E.T.I. – Nel corso del giudizio di appello interveniva il Codacons, chiedendo il risarcimento del «danno morale e ai propri fini statutari». Tale intervento, contestato sia dagli appellanti che dai resistenti, viene dichiarato inammissibile dalla odierna pronuncia, in quanto ai sensi dell’art. 334 c.p.c. sono ammessi in appello esclusivamente interventi autonomi principali, mentre quello del Codacons, nel caso in rassegna, è un intervento adesivo-autonomo, come tale, ai sensi dell’art. 105 c.p.c., esperibile esclusivamente in primo grado.
A di là del condivisibile rilievo processuale, ed a prescindere da seri dubbi sulla possibilità per enti a difesa dei consumatori di chiedere il risarcimento dei danni morali ed ai fini statutari in casi quali quello in esame, deve evidenziarsi che legge n. 281 del 30 luglio 1998 ha espressamente attribuito alle associazioni di consumatori ed utenti la legittimazione ad agire a tutela degli interessi collettivi contro comportamenti che ledano un interesse comune a più soggetti, al fine precipuo di formulare domande dirette a inibire la condotta lesiva, ad adottare misure idonee a correggere o a eliminare gli effetti dannosi dei comportamenti censurati, nonché a pubblicare il provvedimento qualora ciò possa correggere o eliminare tali effetti. In più, l’art. 11 della legge comunitaria del 2001 ha modificato l’art. 3 della legge 281, prevedendo che le imprese che non adempiono agli obblighi stabiliti dal giudice debbano versare una somma di denaro (in verità assai modesta: si va da un minimo di 516 euro ad un massimo di 1.032) destinata a «finanziare iniziative a vantaggio dei consumatori».
Un’ulteriore questione pregiudiziale, che la corte è stata chiamata a sciogliere prima di entrare nel merito della controversia, riguarda l’eccezione relativa alla mancanza di propria legittimazione processuale passiva sollevata dall’E.T.I.
Il Collegio respinge tale eccezione e afferma la piena legittimazione passiva dell’ente, evidenziando come, a tenore dell’art. 3, 1° comma, del D. Leg. 9 luglio 1998 n. 283, esso è subentrato in tutti i rapporti facenti capo ai Monopoli di Stato, sia attivi che passivi, con riguardo all’attività di produzione e di commercio dei tabacchi, acquistandone altresì tutti i beni.
Questo passaggio della sentenza è di grande importanza. Infatti, se la Corte avesse ritenuto che per i danni riconducibili al consumo di prodotti da fumo dovesse essere chiamato a rispondere esclusivamente il soggetto che all’epoca dei fatti produceva e commercializzava il tabacco in Italia, e cioè i Monopoli di Stato, il danneggiato non avrebbe potuto legittimamente rivolgersi per il risarcimento all’Ente Tabacchi Italiani – oggi, come detto, di proprietà straniera – e avrebbe, invece, dovuto convenire in giudizio direttamente lo Stato, con esiti alquanto imprevedibili.
Il che, senza dubbio, avrebbe avuto ripercussioni immediate sugli altri giudizi in corso attualmente in Italia per danni da fumo e sugli analoghi procedimenti che, con tutta probabilità, visto il clamore suscitato dalla odierna sentenza, nell’immediato futuro non mancheranno di far capolino nelle nostre aule giudiziarie.
La sentenza 1015/2005 – L’odierna sentenza è di quelle che lasciano il segno.
Tre i passaggi fondamentali attraverso i quali si snoda il percorso argomentativo della corte.
Nel primo, seguendo le risultanze della C.T.U., si afferma inequivocabilmente l’esistenza di un nesso di causalità scientificamente provato e giuridicamente rilevante tra fumo attivo e patologie tumorali all’apparato respiratorio.
In tal modo, vengono respinte le tesi – tra l’altro, sostenute in giudizio nella C.T.P. dell’E.T.I. – secondo cui: 1) non sarebbe mai possibile affermare con certezza la natura primaria di tali patologie, in quanto esse potrebbero dipendere anche da metastasi che trovano origine in un’altra forma di tumore; e, 2) le stesse sono sempre determinate da concause, tra le quali non è quasi mai dato individuare, con un sufficiente grado di certezza scientifica, la causa determinante.
Nel secondo, una volta accertata la generale nocività del fumo, i giudici di appello accettano, come prova sufficiente dell’esistenza del nesso di causalità tra la prolungata abitudine al fumo del tabacco e la neoplasia denunciata, una probabilità stimata dalla C.T.U. nella misura 80%, sulla base di indagini epidemiologiche condotte in relazione alla storia familiare, lavorativa e residenziale della vittima. Scelta che, in verità, i giudici si premurano correttamente di meglio argomentare richiamando le indagini molecolari svolte sempre dalla C.T.U. sul DNA del fumatore. Indagini, le une e le altre, che non consentono di acquisire certezze assolute, ma che permettono alla corte di ritenere acclarata l’esistenza del nesso di causalità «secondo un criterio di seria probabilità scientifica, al di là di ogni ragionevole dubbio» (così, tra la altre, Cass. pen., sez. un., 10 luglio 2002, in «Foro italiano», 2002, II, 601, n. DI GIOVINE, e Cass. 11 settembre 1998 n. 9037, in «Riv. giur. circolazione e trasp.» 1999, 86).
Compiuti i due passaggi logici appena riassunti, l’organo giudicante – al fine di pronunciarsi sulla richiesta di risarcimento dei danni – è chiamato a verificare l’esistenza di un comportamento, attivo o omissivo, imputabile ai convenuti, idoneo ad ingenerare un danno qualificabile come ingiusto.
Sul punto, la corte dichiara l’applicabilità alla fattispecie dell’art. 2050 c.c., giustificando tale fondamentale affermazione sulla scorta del fatto che il fumo comporta rischi per la salute.
Quindi osserva che «il soggetto che produce tabacco e lo mette in commercio non può ignorare i rischi per la salute che derivano al consumatore […] Inoltre […] non può ragionevolmente ritenersi ignaro degli studi scientifici che da molti decenni, almeno dal 1950, hanno ad oggetto gli effetti del fumo del tabacco sulla salute […] ossia un bene primario dell’uomo, tutelato dalla Carta Costituzionale (art. 32) come diritto fondamentale del cittadino». Da ciò, i giudici ricavano che, anche prima dell’entrata in vigore delle norme che hanno reso obbligatorie le informazioni ai consumatori, «la prima elementare cautela» che il produttore convenuto doveva adottare per tutelare la salute «era quella di informare il consumatore destinatario delle vendite dei rischi del fumo».
Un precedente autorevole in questo senso può essere rintracciato nella sentenza della Corte Costituzionale, 7 maggio 1991 n. 202 (in «Foro italiano», 1991, I, 2312, n. PONZANELLI), la quale, seppure relativamente al fumo passivo, aveva già avuto modo di affermare che «l’art. 32 Cost. in collegamento con l’art. 2043 del codice civile pone il divieto primario e generale di ledere la salute», e ciò, dunque, indipendentemente dall’esistenza di qualunque altra previsione normativa.
L’applicazione dell’art. 2050 – vera chiave di volta della vicenda giudiziaria in esame – fa sì che l’onere di dimostrare nel corso del processo di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno gravi sul convenuto; il quale, però, a sua difesa sul punto si è limitato a dichiarare di aver osservato tutte le disposizioni di legge, sicché, avendo mancato di fornire la prova liberatoria, «è rimasta operante, con tutta la sua forza, la presunzione di colpa» a suo sfavore.
E’ appena il caso di precisare che l’affermazione pretoria, circa l’operatività delle regole di responsabilità civile – e, segnatamente, dell’art. 2050 – a carico di chi, nell’ambito della propria attività, ha causato danni ad altri pur rispettando le leggi in vigore, rappresenta un altro apprezzabile passo in avanti verso il definitivo riconoscimento dell’autonomia e della polivalenza del sistema aquiliano anche nel nostro ordinamento.
I precedenti stranieri – La vicenda della responsabilità civile per danni causati ai consumatori di prodotti da fumo (c.d tobacco litigation) trova nella giurisprudenza nordamericana il suo baluardo.
Negli Stati Uniti, infatti, all’esito di una intensa elaborazione pretoria e dottrinale e dopo una serie di pronunce sfavorevoli che avevano rischiato di deprimere le istanze risarcitorie dei consumatori danneggiati dai prodotti da fumo, verso la metà degli anni novanta alcune corti sono giunte a condannare i produttori di sigarette a risarcire danni, spesso quantificati in somme astronomiche (tra le vicende più eclatanti, v. il caso Engle e altri c. R.J. Reynolds Tabacco e altri, risolto dalla Dade County della Florida, Giudice Robert Kaye, con la sentenza del 14 luglio 2000, in «Foro italiano» 2000, IV, 449, n. PONZANELLI, che condannò le società convenute al risarcimento di 144,8 miliardi di dollari per c.d. danni punitivi).
I maggiori ostacoli all’accoglimento delle azioni di risarcimento dei danni da fumo, in un primo tempo, dipesero: 1) dal fatto che sino agli anni ottanta le iniziative processuali presentavano limiti istituzionali e finanziari dovuti alla sproporzione di forza tra i singoli consumatori che agivano in giudizio e le grandi multinazionali convenute; e 2) dalla difficoltà di superare il diffuso convincimento per cui persino il consumatore più sprovveduto non poteva ignorare i danni che il consumo di tabacco provoca. E ciò anche perché, oltreoceano, sin dal 1995 il Governo federale aveva imposto ai produttori obblighi di informazione ad hoc.
La situazione cambia quando i consumatori cominciano ad agire congiuntamente avvalendosi delle c.d. class actions, che consentono loro di promuovere azioni unitarie e collettive contro comuni convenuti, per lo stesso fatto o fatti riconducibili alla stessa categoria. La prima volta ciò avvenne nel caso Castano c. The American Tobacco co., risolto dalla Corte federale del Distretto della Louisiana, con sentenza del 17 febbraio 1995, in «Foro italiano» 1995, IV, 305, n. PONZANELLI.
Il nuovo corso della giurisprudenza americana trova radici apparentemente diverse rispetto all’itinerario concettuale seguito dalla odierna sentenza della Corte di Appello di Roma.
Le recenti condanne non si fondano sulla (acquisita) certezza scientifica che il fumo fa male e sull’individuazione del nesso di causalità tra uso di tabacco ed insorgenza nel singolo fumatore di una patologia ad esso collegata, né sull’omissione di informazioni circa la generica dannosità del prodotto. A rendere poco incisivo un simile discorso, infatti, viene il rilievo che tale circostanza è insufficiente a sancire la responsabilità dei produttori, giacché chi fuma implicitamente accetta coscientemente il rischio.
Ai produttori di tabacchi venduti negli Stati Uniti si rimprovera, invece, un atteggiamento corporativo omissivo, reiterato per anni colposamente, finalizzato a non far conoscere al pubblico i dati scientifici in loro possesso circa la dipendenza psico-fisica che la nicotina determina; dati che solo in epoca più recente sono venuti allo scoperto, e certo non per iniziative dei produttori. Per tale ragione, il danno imputato a tali soggetti non è solo quello di volta in volta accertato rispetto ai singoli casi portati all’attenzione delle corti, bensì più in generale il danno causato all’intera popolazione dei fumatori (c.d. punitive damages).
Il discorso, in buona sostanza, è: tutti sapevano genericamente che il tabacco nuoce alla salute, ma i produttori conoscevano dati scientifici allarmanti che avrebbero dovuto divulgare; inoltre, essi erano perfettamente consapevoli che la nicotina determina dipendenza psico-fisica; e, malgrado ciò, hanno volontariamente evitato di diffondere tali informazioni. Il risultato è che i produttori di tabacchi vengono, in definitiva, condannati per essersi comportati in modo consapevolmente scorretto finendo per determinare uno squilibrio informativo tra loro ed i consumatori tale da non consentire a questi ultimi di esercitare una scelta realmente libera, in quanto correttamente informata, circa il fumare o il non fumare.
Con il che, però, si finisce inevitabilmente per negare proprio quel principio di freedom of choice che inizialmente era servito per respingere le richieste di risarcimento dei fumatori danneggiati e che, in linea teorica, ancora oggi continua ad essere affermato, ma più in ossequio ad un certo credo politico-ideologico che non come grimaldello in grado di scardinare il meccanismo della responsabilità civile.
I precedenti italiani – Nella giurisprudenza italiana si registrano soltanto due precedenti editi dell’odierna pronuncia. Uno rappresentato dalla già richiamata sentenza del Tribunale di Roma del 1997, oggetto del giudizio di appello in commento. Il secondo costituito dalla sentenza, sempre del Tribunale capitolino, datata 11 febbraio 2000, ed emessa nel caso Schiaratura c. Philip Morris Corp. Serv. Inc. e Ente Tabacchi Italiani (in «Corriere giuridico», 2000, 1639, e in «Giurisprudenza italiana» 2000, 1463).
Anche in questo secondo caso la vittima aveva cominciato a fumare in tenera età, ben prima dell’entrata in vigore della legge introduttiva dell’obbligo di avvertenze – la più volte citata n. 428 del 1990 –, ed aveva continuato a farlo per circa cinquant’anni.
Rispetto alla sentenza “Stalteri” di primo grado, tuttavia, questa seconda pronuncia, sebbene finisca come l’altra per respingere l’istanza risarcitoria, rappresenta un passo in avanti sulla strada per l’affermazione del risarcimento dei danni provocati dal fumo, in quanto non dubita della dannosità del tabacco, sebbene la circoscriva nell’ambito del solo abuso da parte del consumatore.
In altre parole, chiamato a pronunciarsi sull’applicabilità dell’art. 2050 contro i produttori convenuti, nel 2000 il Tribunale di Roma, pur affermando la «oggettiva nocività alla salute del fumo», ritiene che essa derivi esclusivamente dall’uso eccessivo del prodotto; quindi, riconoscendo nel tessuto sociale una piena consapevolezza circa tale nocività, riconduce l’abuso – ed in definitiva il danno – alla libertà di scelta individuale.
Attraverso tale itinerario logico – che, per inciso, si pone nel solco segnato dalla prima giurisprudenza americana – si finisce per negare l’applicazione della norma da ultimo citata, in quanto la produzione di tabacco ed il tabacco in sé non avrebbero una «intrinseca potenzialità lesiva» e la nocività dei prodotti da fumo sarebbe riconducibile esclusivamente alla libera scelta del consumatore. La sentenza del 2000 afferma, inoltre, che l’obbligo di informazione in capo ai produttori di tabacchi, quando non sancito da una specifica disposizione di legge, non può essere ricavato direttamente dall’applicazione dell’art. 2043 c.c.
Anche questa sentenza è stata impugnata dagli attori, parenti della vittima, ed attualmente è oggetto di gravame davanti alla Corte di Appello di Roma.
La natura intrinsecamente pericolosa (o dannosa?) dell’attività di produzione e commercializzazione di tabacchi – La soluzione a cui è pervenuto il Tribunale di Roma nei due precedenti citati – e che fa sostanzialmente leva sulla libertà di scelta del consumatore consapevole dei rischio a cui andava incontro fumando non moderatamente – si espone facilmente a due obiezioni. La prima fa perno sulla difficoltà di individuare un serio discrimen, oggettivo e preventivamente verificabile, tra uso ed abuso dei prodotti da fumo. La seconda concerne l’effettività della libertà di scelta in capo al fumatore.
I due argomenti permettono di revocare in dubbio la responsabilità – o quantomeno la piena ed esclusiva responsabilità – del consumatore rispetto ad un suo eventuale abuso di tabacco; la qual cosa consente di respingere le tesi che, sulla base del principio di freedom of choice, ritengono improponibili le sue istanze di risarcimento del danno.
Tuttavia, essi non bastano a giustificare l’operatività dell’art. 2050 contro i produttori di tabacchi, visto che ai fini dell’applicabilità di tale norma non rileva che il danneggiato sia più o meno (cor)responsabile del fatto da cui deriva il suo danno.
Non basta, cioè, ammettere che il fumatore non è affatto libero di (non) fumare, per qualificare l’attività di produzione e commercio di tabacco come attività intrinsecamente pericolosa. Né, tuttavia, sembra potersi ricavare – così come fa l’odierna sentenza – la natura rischiosa dell’attività in parola dal fatto che il consumo eccessivo e prolungato nel tempo di tabacco esponga il consumatore al rischio di contrarre malattie dell’apparato respiratorio, cardiovascolare o tumorali. Giacché, se così fosse, allora – tanto per fare un esempio tra i molti possibili – anche la produzione e vendita di potenti automobili o di motocicli potrebbe essere considerata attività pericolosa, visti i rischi a cui l’uso non moderato di tali prodotti espone la salute umana.
A ben vedere, l’attività di produzione e vendita di tabacchi, una volta accertata la dipendenza del fumatore dal prodotto e la nocività di un uso eccessivo e prolungato dello stesso, andrà più correttamente qualificata come attività “dannosa”, con tutte le conseguenze del caso.
Conseguenze che non possono prescindere dal considerare come l’art. 2050 trova la sua ratio nel prevenire l’eventualità che un rischio si trasformi in danno imponendo al soggetto agente oneri di prevenzione, e non anche nel diminuire l’incidenza statistica di attività senza dubbio comunque dannose.
In altre parole, l’art. 2050 si propone di evitare, per quanto possibile, che il rischio di un evento dannoso, derivante da un’attività intrinsecamente “pericolosa”, si trasformi nell’evento dannoso temuto e, quindi, produca i conseguenti danni. Ciò è possibile grazie alle misure di prevenzione che chi svolge attività pericolosa è invogliato a porre in essere, pena il consolidamento della presunzione di responsabilità a suo carico.
La norma, al contrario, non dovrebbe trovare applicazione quando l’attività è intrinsecamente “dannosa”, sicché l’unico modo che il produttore ha di evitare il danno non risiede nell’assunzione di misure preventive, bensì consiste nell’interruzione stessa dell’attività.
Ovviamente, un discorso diverso sarebbe a farsi qualora si potesse affermare che il fumo, generalmente, non produce dipendenza e non induce il consumatore ad aumentare progressivamente le dosi, almeno sino a certi quantitativi massimi. In tal caso, infatti, l’attività di produzione e commercializzazione di tabacco sarebbe qualificabile come attività pericolosa, e non intrinsecamente dannosa, visto che il fumatore potrebbe – se debitamente avvertito ed informato – fumare poco e, dunque, evitare che il rischio di incorrere in patologie ricollegate al tabacco si concretizzi a suo danno degenerando nell’evento temuto.
Conclusioni – Come si è già accennato supra, l’importanza del principio di diritto stabilito dalla sentenza 1015/2005 sembra andare oltre l’omessa informazione, per la quale, nel caso di specie, il produttore convenuto viene condannato al risarcimento dei danni morali verso i parenti della vittima del fumo.
Una volta stabilito che l’art. 2050 è applicabile nei confronti di chi produce e commercia tabacchi – sempre che tale conclusione regga al vaglio di legittimità a cui con tutta probabilità verrà sottoposta – la giurisprudenza, nel prossimo futuro, sarà chiamata a verificare se la dimostrazione di aver informato adeguatamente i consumatori basta ad integrare la «prova di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno», prova che libera il produttore dalla presunzione legale di responsabilità.
Il dubbio è che, se l’attenzione delle corti si punterà sulla dipendenza che la nicotina ingenera nei fumatori e sui quantitativi di nicotina presenti in alcuni prodotti da fumo, non è affatto detto che l’aver informato i consumatori metta al sicuro i produttori. E ciò anche perché, se qualche perplessità può legittimamente nutrirsi circa il fatto che maggiori informazioni prestate in passato dai produttori di tabacchi potessero realmente impedire danni ai consumatori, meno dubbi vi sono sulla circostanza per cui prodotti da fumo che ingenerano meno dipendenza sarebbero certamente meglio utilizzati dai fumatori.
Questione, quella della dipendenza psico-fisica dei fumatori, che appare centrale nell’ottica di una corretta elaborazione giuridica della vicenda risarcitoria, posto che non appare del tutto condivisibile il passaggio della odierna sentenza in cui si afferma disinvoltamente che l’applicazione dell’art. 2050 rende irrilevante la disamina della condotta del fumatore; e ciò in quanto la norma citata introduce un regime speciale di imputazione della responsabilità risarcitoria, ma non incide minimamente sul diverso profilo del quantum risarcibile, rispetto al quale continua a trovare applicazione l’art. 1227 c.c.
Un’ultima osservazione riguarda la misura dei danni ingenerati dal fumo in Italia e, dunque, le proporzioni che il relativo contenzioso sembra destinato ad assumere. In proposito, sulla base di quanto affermato dalla Corte di Appello di Roma nell’odierna pronuncia, è facile pronosticare future istanze di risarcimento anche molto cospicue, visto che ai danni morali gli attori, con tutta probabilità, quando le circostanze lo consentiranno, aggiungeranno la richiesta di danni patrimoniali da lesione del credito, di danni da morte, nonché di danni biologici ed esistenziali.