(in Temi Romana, 1999, 1, 779) di FRANCESCO DI CIOMMO

SOMMARIO:

1. Premessa
2.1. Ricognizione preliminare attorno al trust
2.2. Il trust in Italia: brevi cenni
3.1. Le origini e il carattere della Convenzione
3.2. Il campo di applicazione della Convenzione
3.3. L’art. 2 e il trust oggetto della Convenzione
3.4. La legge applicabile
3.5.1. Il riconoscimento
3.5.2. Effetti del riconoscimento e rivendicazione dei beni in trust
4.1. I trusts interni
4.2.1. La Convenzione dell’Aja come Convenzione di diritto uniforme
4.2.2. Alcune precisazioni ancora sulla natura della Convenzione
4.3.1. Le norme della Convenzione ed i trusts interni
4.3.2. L’art. 13 della Convenzione
4.4. Un altro modo per riconoscere l’operatività dei trusts interni
4.5. Considerazioni conclusive sul trust n Italia
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1. Premessa

Dal 1° gennaio 1992, data di entrata in vigore della Convenzione dell’Aja del 1985, sulla legge regolatrice e sul riconoscimento dei trusts, anche in Italia si è aperto un acceso dibattito che, in generale, ha riguardato la portata della Convenzione e che, in particolare, tra l’altro, si è concentrato sulla possibilità – sostenuta da alcuni e negata da altri – di costituire trusts che realizzino i loro effetti principali in ordinamenti privi di una normativa interna che riguardi l’istituto in esame. I fautori di tale possibilità sostengono che la Convenzione non distingua i trusts con elementi transfrontalieri da quelli interni. Gli altri, al contrario, ritengono che la normativa pattizia, in quanto strumento di diritto internazionale, legittimi esclusivamente l’operatività di trusts che conservino qualche elemento di internazionalità.
Propendere per l’una o l’altra soluzione significa, in concreto, ammettere, ovvero negare, che il cittadino italiano possa utilizzare il negozio di trust anche in situazioni che non presentino elementi di estraneità rispetto al nostro ordinamento. E di conseguenza permettere, ovvero ostacolare, la larga utilizzazione dell’istituto in Italia.
Nel corso della seguente riflessione, si analizzeranno le norme della Convenzione sulla base delle quali – attraverso un itinerario logico che ne evidenzi lo spirito liberale – è possibile sostenere la piena operatività dei trusts interni nel nostro ordinamento. Le considerazioni più importanti verteranno sull’oggetto della Convenzione, l’ambito di efficacia della stessa, la natura ed il carattere del testo normativo adottato all’Aja.

2.1. Ricognizione preliminare attorno al trust

Il trust è un istituto negoziale, di origine anglosassone, che, soprattutto nel corso degli ultimi decenni, per elasticità e notevole adattabilità ad esigenze e situazioni tra esse anche diversissime, si è imposto nella realtà commerciale e, lato sensu, economica di tutto il mondo progredito. F.W.Maitland, riflettendo in termini comparatistici , scrisse che il trust “forse rappresenta il risultato più significativo cui sono giunti i giuristi inglesi”. I vantaggi evenienti da un’operazione di trust non sono facilmente riassumibili nel corso di una trattazione che si propone di seguire altre traiettorie; è tuttavia, necessario, ai fini della piena comprensione della presente riflessione, trattare brevissimamente, in via preliminare, delle origini e della struttura del trust tradizionale.
Il trust – come anticipato – nasce in ambiente anglosassone attorno al 1350 e si sviluppa soprattutto da quando nel panorama civilistico inglese non esiste più quella possibile molteplicità di diritti sui beni che, malgrado il numerus clausus dei diritti reali, è ancora caratteristica dei sistemi continentali. Per realizzare situazioni atipiche di godimento ed instaurare rapporti gestori, fu, dunque, necessario utilizzare il trust. Tale operazione, in Inghilterra, fu agevolata dalla esistenza di una giurisdizione – alternativa rispetto a quella ordinaria – che si basava proprio sull’atipicità delle vicende e dei rimedi: l’equity . Tale giurisdizione era affidata al Cancelliere, il quale, adoperando il potere di grazia che il re gli conferiva, interveniva in situazioni non previste dalla common law per tutelare, in via di equità, situazioni di privati cittadini in capo ai quali la legge non riconosceva veri e propri diritti. Il trust, dunque, è figlio dell’equity, anzi, ne è il figlio prediletto. La sua è una struttura fondamentalmente trilaterale: un soggetto (settlor) conferisce il legal title su certi beni ad un trustee che si impegna a gestirli per un determinato periodo – individuato da termini o condizioni –, seguendo le istruzioni del settlor, in favore di terzi beneficiari che diventano, perciò, titolari di un equitable interest. Il legal title è tutelato dalla common law, l’equitable interest dall’equity.
La stessa definizione di trust, pur senza dare indicazioni precise , pone, secondo parte della dottrina, in evidenza quella che sarebbe la chiave di volta per la comprensione dell’intero istituto, e cioè la “dual ownership” . Con tale espressione ci si riferisce al presunto sdoppiamento di proprietà, realizzato in un’operazione di trust e collegato alla bipartizione tra law ed equity, che contraddistingue il sistema giuridico inglese . Accettando una visione dell’istituto incentrata sul dogma della doppia proprietà, il trust risulta davvero improponibile in ambienti di civil law, dove la proprietà ha per decenni rappresentato il cuore pulsante dell’intero sistema e dove ancora oggi essa, in tutta la sua pienezza ed esclusività , svolge un ruolo determinante. Di contro, va sottolineato che, come la dottrina più recente osserva, ci sono fondate – e in questa sede non riassumibili – ragioni per credere che in una vicenda tipica di trust non esista alcuno sdoppiamento della proprietà, bensì una separazione tra la proprietà detenuta dal trustee (legal title) a fini gestori e il diritto di credito che i beneficiari vantano nei confronti di tale gestione (equitable interest) . In tal senso si è espressa anche la Corte di Giustizia delle Comunità Europee nel 1994 .
L’istituto in esame – che, dunque, sotto l’aspetto dominicale si assume essere perfettamente compatibile con il nostro ordinamento – ha attirato negli anni l’attenzione degli operatori, in virtù della facilità con cui realizza segregazioni di patrimonio in capo ai trustees ed instaura rapporti ben definiti tra le parti direttamente interessate dalla vicenda e tra queste ed i terzi .
Un proprietario che, in previsione della sua morte, voglia proteggere il suo patrimonio, ad esempio, dalla dissolutezza dei suoi eredi diretti, può costituire un trust con il quale dispone che il trustee gestisca il trust fund e durante la gestione operi trasferimenti periodici a favore degli eredi, in attesa di trasferire la piena proprietà di quanto rimanga nel trust fund, sempre in ipotesi, ai suoi discendenti di secondo grado, quando questi ultimi avranno compiuto una certa età. Allo stesso modo, un cittadino che debba costituire in deposito beni fungibili (ex ceteris, denaro) – c.d. deposito irregolare – in capo, ad esempio, ad un professionista perché adempia ad obblighi fiscali in qualità di sostituto d’imposta, se teme che quest’ultimo possa essere aggredito dai suoi creditori personali prima di adempiere a detto obbligo, può costituire in trust i beni trasferiti e nominare trustee il professionista prescelto. E ancora, un istituto di credito che voglia controllare direttamente il patrimonio concesso per finanziare un investimento, e voglia rendere tale somma impermeabile alle aggressioni dei creditori personali del finanziato, può costituire un trust destinato alla realizzazione dell’opera in progetto e porre come trustee lo stesso finanziato. In tal caso, il trust fund sarà aggredibile solo per crediti che hanno causa in vicende inerenti alla predetta opera. Così facendo, in tutti e tre gli esempi prospettati, il settlor blinderà il patrimonio fino ad una certa data; lo renderà, cioè, insensibile alle pretese dei creditori personali, tanto del trustee, quanto dei beneficiari.
Quelle accennate sono soltanto alcune delle possibili applicazioni dell’istituto in esame, il quale ha dalla sua la capacità di piegarsi alle più diverse esigenze del disponente e di realizzare una vasta gamma di risultati, come pochi o, forse, nessun’altro strumento attualmente in mano al giurista può fare. Tale capacità lo rende fortemente appetibile. Nel corso dei secoli il trust ha avuto un enorme sviluppo ed è stato impiegato a tutela degli interessi più disparati: dalla gestione di patrimoni familiari, alle intestazioni di immobili, dalle partecipazioni azionarie, alle garanzie di adempimento delle pattuizioni tra “co-ventures” nei contratti di “joint-venture”. Per dirla con Lupoi: “che i trusts servano a tutto è un luogo comune, ma non un’esagerazione” .
Il trust è da anni oggetto dei desideri negoziali degli operatori commerciali anche dei paesi di civil law, quale è il nostro, che ancora non hanno approntato la disciplina specifica all’uopo richiesta . Ciò anche perché la globalizzazione del mercato permette, e pretende, ampia circolabilità degli istituti che meglio si prestano alle esigenze moderne, riassumibili in termini di immediatezza e certezza.
Malgrado, infatti, quello in esame sia un istituto tipicamente operativo nel mondo giuridico angloamericano, tanto da risultarne un cardine, è sempre meno improbabile che persone vissute per lungo tempo in paesi di common law pongano in essere un trust – specialmente per testamento, nella cui stesura risulta poco frequente l’assistenza preventiva di esperti giuristi – in paesi che non conoscono l’istituto. Allo stesso modo, oggi spesso accade che un cittadino di un ordinamento che riconosce il trust ne costituisca uno i cui effetti vadano oltre i confini nazionali e si facciano sentire lì dove il trust non è ancora stato oggetto di sistematici interventi legislativi (come in Italia).
E’, dunque, sia per soddisfare la diffusa esigenza di istituti moderni e dinamici, sia per dare corretta efficacia ai trusts con i quali l’ordinamento può venire a contatto, che molti paesi tradizionalmente no-trust si sono, negli ultimi decenni, interrogati sull’istituto in esame e hanno elaborato, nel 1985, – insieme ai paesi angloamericani che ben lo conoscono – una Convenzione sulla quale ci si soffermerà più avanti.

2.2. Il trust in Italia: brevi cenni

Frequenti, come detto, sono i trusts che hanno ad oggetto beni situati in paesi che ignorano l’istituto (l’Italia, ad esempio), o che, in altro modo, spiegano qualche efficacia in tali paesi. Ciò crea, ed ha creato, notevoli problemi nel sempre più fitto intrecciarsi di rapporti ed interessi, e nella sempre più frequente e frenetica circolazione di persone e beni in sede internazionale. A tali problemi non si riusciva ad ovviare nemmeno attraverso i meccanismi di rinvio predisposti dalle norme di diritto internazionale privato, giacché l’istituto in questione mal si presta ad essere inquadrato nelle categorie all’uopo predisposte nei sistemi di diritto civile. Così, anche uno strumento per decenni ritenuto totalmente estraneo al nostro, come agli altri ordinamenti di civil law, e finanche pericoloso per il mantenimento dell’ordine pubblico interno , è stato, negli ultimi decenni, oggetto di un’analisi dottrinale più attenta, volta ad individuarne le infinite potenzialità ed a permetterne, in qualche modo, l’utilizzazione anche da parte nostra.
Già dopo la risalente monografia di Franceschelli sui trusts, datata 1935 , alcuni studiosi italiani trattarono l’argomento, ma soltanto perché mossi da interesse comparatista . Nell’immediato dopoguerra l’istituto in esame suscitò ulteriore crescente curiosità, perché considerato vera e propria caratteristica degli ordinamenti di common law.
Agli inizi degli anni ottanta l’attenzione della dottrina italiana fu stimolata dal prestigio che l’istituto si guadagnò quando i civilisti scoprirono di non possedere strumenti idonei per padroneggiare i fenomeni economici che si stavano sviluppando negli interstizi della legge. A riprova di tale imbarazzo, basti pensare alle fantasiose strutture giuridiche impiegate in Italia per realizzare la raccolta “atipica” del risparmio fino alla prima legge del 1983 sui fondi comuni di investimento . La consapevolezza così acquisita si arrestò, però, alle ragioni contingenti che l’avevano prodotta e quindi ai tentativi di applicazioni pratiche dell’istituto in questione che, non sorretti da una coscienza sistematica del diritto straniero, cozzarono contro l’inerzia complessiva dell’ordinamento.
Dopo il 1° gennaio 1992, invece, in seguito alla entrata in vigore della Convenzione dell’Aja sulla legge applicabile ai trusts e sul riconoscimento degli stessi , si registra una maggiore consapevolezza ed una più responsabile presa di posizione anche da parte dei giuristi italiani. Da più parti si incoraggia l’approfondimento e si invita la dottrina ad abbandonare le dogmatiche chiusure dovute alla “ossificazione delle categorie di riferimento”. Tali categorie, se non si dimostrano sufficientemente elastiche ed aperte, rischiano di ingessare l’intero ordinamento e di intralciare l’evoluzione stessa della scienza giuridica, la quale ha un senso solo se e quando – incentivata dall’incalzare del diritto vivente – evita il pericolo di una sterile cristallizzazione, rimettendosi, di tanto in tanto, rigorosamente in discussione.

3.1. Le origini e il carattere della Convenzione

Dal 1° gennaio 1992 – come detto – è operativa in Italia la già citata Convenzione dell’Aja relativa alla legge applicabile ai trusts ed al loro riconoscimento, ratificata con la legge n. 364 del 16 ottobre 1989 . E’ solo da quella data, dunque, e solo in virtù di tale normativa internazionale che esiste nel nostro ordinamento una disciplina positiva della fattispecie-trust in grado di indicare all’operatore interno il comportamento da tenere a riguardo e il trattamento da riservare all’istituto.
Come è stato necessario, al fine di una migliore comprensione della presente riflessione, richiamare brevemente l’attenzione del lettore sulla struttura e sulle funzioni tipiche del trust angloamericano, così conviene fondare gli argomenti a difesa dell’operatività del trust interno su di una preliminare elaborazione delle norme della Convenzione che risultano di maggior interesse.
La Convenzione, approvata il 20 ottobre 1984, è stata adottata il 1° luglio 1985 nella quindicesima sessione della Conferenza dell’Aja di diritto internazionale privato, ed è entrata in vigore solo nel 1992 poiché il suo art. 30 disponeva che solo “il primo giorno del terzo mese dopo il deposito del terzo strumento di ratifica” essa avrebbe avuto piena efficacia . La decisione di dedicare al trust un’apposita sessione della Conferenza di diritto internazionale privato dell’Aja risale al 1980, quando, a conclusione dei lavori della quattordicesima sessione , i delegati segnalarono la necessità prioritaria di elaborare uno strumento che consentisse di superare le difficoltà connesse all’individuazione della legge applicabile ed al riconoscimento di un istituto assai diffuso nella prassi degli ordinamenti di common law, ma pressoché ignorato in tutti gli altri . Se pare inequivocabile che la Convenzione sia sorta per soddisfare quelle esigenze ed eliminare quelle incertezze, altrettanto inequivocabile è che, in realtà, durante i lavori della quindicesima sessione si sia andati ben oltre ciò che gli stessi delegati avevano previsto. A dimostrazione di quanto detto, è utile tracciare i confini dell’istituto oggetto della Convenzione e, dunque, il campo di applicazione della normativa convenzionale, al fine di apprezzare il carattere liberale della stessa
Il rapporto che accompagnava l’avamprogetto della Convenzione , adottato dalla Commissione speciale del 1983, valutava e indicava l’opportunità di limitare l’ambito di applicazione della nuova disciplina ai soli trusts costituiti in conformità al diritto anglo-americano. Inoltre, durante i lavori preparatori furono formulate proposte volte ad escludere dall’ambito di applicazione della stessa i business trusts e i trusts finalizzati ad istituire sistemi di sicurezza sociale . Dalla lettera del preambolo della Convenzione, invece, e ancor di più dall’art. 2, si evince in maniera sufficientemente chiara come il testo finale respinga le due limitazioni, in quanto prevede che la disciplina convenzionale sia applicabile non solo ai trusts creati conformemente alle norme di common law , ma a tutti i trusts aventi le caratteristiche richieste e indicate dalla Convenzione stessa.
Altro argomento che dimostra come, durante i lavori della quindicesima sessione, i delegati siano andati oltre le ambizioni ed i programmi iniziali, fa leva sull’ampiezza dei contenuti della normativa in questione. A differenza di quanto stabilito nell’avamprogetto, nel quale si limitava l’applicabilità della Convenzione alle disposizioni concernenti la legge regolatrice, il testo approvato estende la medesima efficacia alle norme relative al riconoscimento. Inoltre, l’avamprogetto contemplava, per quanto concerne la disciplina del riconoscimento, due possibili alternative, delle quali una, successivamente abbandonata, ne limitava la portata ai trusts creati in base alla legge di una parte contraente. Il testo attuale della Convenzione non prevede alcun limite in proposito, ad ulteriore dimostrazione del suo carattere ampiamente liberale.

3.2. Il campo di applicazione della Convenzione

Il capitolo I della Convenzione – artt. da 1 a 5 – è dedicato al “campo di applicazione” della nuova disciplina. L’art. 1 ha un’importante funzione introduttiva perché manifesta l’ampia portata della normativa:
“La presente Convenzione stabilisce la legge applicabile al trust e regola il suo riconoscimento “.
La disposizione più importante del capitolo I è, senza dubbio, contenuta nell’art. 2. In esso vengono indicate le caratteristiche che un istituto deve possedere per ricadere nell’ambito di applicazione della Convenzione. Durante i lavori della Conferenza, molti delegati si opposero all’idea di una definizione precisa e rigida dell’istituto, in quanto si temeva che, così facendo, si sarebbero escluse dall’applicabilità della nuova disciplina categorie di trusts che invece meritavano di entrarvi. Non si giunse neppure ad una decisa definizione strutturale a causa delle divergenze e delle incomprensioni che si manifestarono, a tale proposito, tra la dottrina di common law e quella di civil law. Il nocciolo della questione era rappresentato dalla sussistenza o meno nella fattispecie-trust della tanto discussa dual property (incompatibile con i principi regolatori dei diritti reali negli ordinamenti di civil law).
L’esperienza che la dottrina di civil law aveva fatto, attraverso l’elaborazione delle nozioni riguardanti il trust anglosassone, portò ad escludere che questo, sic et simpliciter, potesse trovare spazi di operatività all’interno di ordinamenti diversi da quelli di common law. Si decise, perciò, piuttosto consapevolmente, di disegnare all’art. 2 una fattispecie di trust che fosse – al contrario del modello tradizionale – pienamente e manifestamente compatibile con i principi degli ordinamenti di diritto civile. In altre parole, il trust oggetto della Convenzione non è quello anglosassone, ma un istituto con proprie peculiarità che somiglia al suo illustre progenitore e, tuttavia, se ne differenzia.

3.3. L’art. 2 e il trust oggetto della Convenzione

Il primo comma dell’art. 2 presenta la fattispecie-trust oggetto della Convenzione evidenziandone subito le caratteristiche più importanti.
In prima battuta si chiarisce che con il termine trust ci si riferisce, per quanto riguarda la disciplina convenzionale, ai “rapporti giuridici istituiti da una persona (fisica o morale, n.d.a ), il costituente, (…) qualora dei beni siano stati posti sotto il controllo di un trustee nell’interesse di un beneficiario o per un fine specifico”. Tale prima definizione dell’istituto consente di compiere due importanti riflessioni: 1) non si parla di trasferimento dei beni dal settlor al trustee, ma solo di controllo da parte di quest’ultimo ; 2) le due finalità previste sono l’interesse di un beneficiario (ma si deve intendere anche di più beneficiari) o uno scopo specifico.
Sempre nel primo comma, si dichiara che la costituzione del trust deve avvenire “con atto tra vivi o mortis causa”. Il progetto preliminare non conteneva alcuna norma che contemplasse la possibilità di istituire un trust anche con atto mortis causa, ma nel corso della quindicesima sessione ci si rese conto che, molto spesso, nei paesi di civil law, già prima della Convenzione, erano venuti ad esistenza testamentary trusts e, dunque, nel clima di grande fiducia ed entusiasmo che si era creato in sede di Conferenza, si ampliò la portata della disciplina e l’obbligo di riconoscimento anche a questi. Si noti però che, ai sensi dell’art. 4, un giudice sarà libero di valutare le “questioni preliminari relative alla validità dei testamenti o di altri atti giuridici, in virtù dei quali determinati beni giuridici sono trasferiti al trustee”, e soprattutto che la Convenzione non potrà ostacolare (ai sensi dell’art. 15) l’applicazione delle disposizioni inderogabili di legge previste dalle regole di conflitto del foro in materia di testamenti e di devoluzione dei beni successori.
Dopo aver indicato, all’art. 1, che l’atto istitutivo di trust può essere – come detto – tra vivi o mortis causa, all’art. 3 si evidenzia che:
“La Convenzione si applica solo ai trusts costituiti volontariamente e comprovati per iscritto”
e, dunque, si pongono due requisiti perché si possa ravvisare il “trust convenzionale”, uno di sostanza e uno di forma, su cui in questa sede non è dato di soffermarsi.
Il secondo comma dell’art. 2 enuncia, come già anticipato, tre caratteristiche del trust oggetto della Convenzione. Per prima, la seguente:
“a) i beni del trust costituiscono una massa distinta e non fanno parte del patrimonio del trustee;”
La disposizione, integrata nei suoi riflessi pratici dall’art. 11 (a cui si rinvia), riguarda gli effetti del riconoscimento e cerca di risolvere le perplessità che l’istituto in esame solleva in relazione alla creazione di un patrimonio, autonomo rispetto a quello del trustee, e (se la legge regolatrice lo prevede) inaggredibile sia da parte dei creditori del settlor che da quelli del trustee.
In realtà, – come, in common law, si assicura piena tutela al terzo che abbia acquistato in buona fede il diritto in questione in base ad un atto provvisto di una valuable consideration – così, nel nostro ordinamento, il terzo in buona fede riuscirà a difendersi dalle rivendicazioni dei beneficiari. Egli è tutelato, ai sensi della Convenzione, in modo conforme ai principi vigenti nel nostro ordinamento , in quanto spetterà al settlor, in Italia come in Inghilterra, – se vorrà permettere ai beneficiari di agire verso il terzo – prevedere obblighi pubblicitari in capo al trustee che mettano in guardia il terzo stesso sull’esistenza del trust. In tal modo, risulterà a quest’ultimo più gravosa la dimostrazione di essere stato in buona fede nel caso si renda parte di un breach of trust.
La seconda caratteristica enunciata dall’art. 2 è formulata nei seguenti termini:
“b) i beni del trust sono intestati a nome del trustee o di un’altra persona per conto del trustee;”
Dal combinato disposto delle lettere a) e b) si nota come la trust property, pur essendo patrimonio distinto rispetto a quello personale del trustee, sia sempre nella titolarità formale di questo. Ciò non dovrebbe creare alcun problema nel nostro ordinamento, in quanto, se tale titolarità risulta dall’atto di trasferimento del patrimonio ovvero è comunque pubblicizzata attraverso gli strumenti appositi, essa va intesa anche in senso sostanziale, in virtù del fatto che, sulla base di tale intestazione, il trustee può gestire a suo piacimento i beni in trust, salvo rispondere, in via risarcitoria, nei confronti dei beneficiari per violazione degli obblighi assunti nei loro confronti. Non ha senso, dunque, distinguere tra titolarità formale e sostanziale dei beni in trust. In capo ai beneficiari, infatti, non è individuabile alcuna proprietà sostanziale, ma solo diritti obbligatori come oggi ammesso anche dalla Corte di Giustizia delle Comunità Europee .
La terza ed ultima delle caratteristiche elencate dal comma 2° dell’art. 2 riguarda i poteri e i doveri del trustee. Alla lettera c) si legge:
“c) il trustee è investito del potere ed onerato dell’obbligo, di cui deve rendere conto, di amministrare, gestire o disporre dei beni secondo i termini del trust e le norme particolari impostegli dalla legge”.
Nei lavori preliminari si è sempre usata la metafora della pietra e della fionda, in quanto si sosteneva che la Convenzione regola la pietra, cioè il trust, e non la fionda, cioè la forza propulsiva del trust stesso e le limitazioni ad esso proposte da altre disposizioni. La disposizione in esame conferma questo assunto, considerato che dichiara solo in via generale quali sono i limiti che il trustee deve rispettare nel corso della sua attività di gestione: il “settlor’s intent” (così il testo ufficiale) e gli obblighi di legge.
Merita, infine, di essere ricordato l’ultimo comma dell’art. 2, dove si legge:
“Il fatto che il costituente conservi alcune prerogative o che il trustee stesso possieda alcuni diritti in qualità di beneficiario non è necessariamente incompatibile con l’esistenza di un trust.”
Tale precisazione non compariva nel disegno preliminare ed è stata aggiunta su richiesta, prima, della delegazione inglese e, poi, di quella canadese. Essa dimostra ulteriormente che nel corso della quindicesima sessione della conferenza si è cercato in tutti i modi di allargare il più possibile l’oggetto della nuova disciplina. Ciò fa sì che tra un’interpretazione restrittiva (si applica solo ad istituti generalmente riconosciuti come trusts) ed una più liberale (si applica a tutti gli istituti che presentino le caratteristiche indicate nell’art. 2, siano o meno chiamati trusts) appaia più fondata la seconda , malgrado entrambe siano state autorevolmente sostenute.

3.4. La legge applicabile

Nei paragrafi precedenti si è cercato di tracciare un identikit abbastanza preciso del trust oggetto della Convenzione e dell’ambito operativo della stessa, sottolineando come durante i lavori della Conferenza dell’Aja si è voluto, in ogni modo, incoraggiare l’utilizzazione di trusts, favorendo l’ampia applicabilità della Convenzione ed eliminando i principali motivi di preoccupazione dei delegati provenienti dai paesi no-trust.
Ad integrazione di quanto fin qui detto, si deve precisare che non basta che la fattispecie in questione abbia i requisiti finora enunciati perché essa sia oggetto della disciplina convenzionale; all’art. 5, infatti, si dispone che:
“La Convenzione non si applica qualora la legge specificata al capitolo II non preveda l’istituto del trust o la categoria del trust in questione.”
Tale previsione fa cogliere l’importanza dell’argomento che ci si appresta a trattare, al quale è dedicato, appunto, il Capitolo II (artt. da 6 a 10) del testo normativo: la “legge applicabile”.
Nel primo comma dell’art. 6 risiede il principio della libertà di scelta della legge regolatrice del trust istituito . Tale principio, ai fini della presente riflessione, risulta di rilevanza primaria.
“Il trust è regolato dalla legge scelta dal costituente. La scelta deve essere espressa, oppure risultare dalle disposizioni dell’atto che costituisce il trust o portandone la prova, interpretata, se necessario, avvalendosi delle circostanze del caso” .
La disposizione in esame non pone alcuna limitazione al settlor, il quale potrà decidere, a seconda della sua mera convenienza o preferenza, quale legge regolerà gli effetti del suo trust e i rapporti interni scaturenti da questo. Come già accennato, si è da più parti sostenuto che tale libertà di scelta spetti solo a settlors che costituiscono trusts di common law, o, tesi meno restrittiva, trusts con elementi di internazionalità. In realtà, se la Conferénce avesse voluto porre tale limitazione, lo avrebbe fatto espressamente, e molto probabilmente proprio nell’art. 6, mentre non c’è in tutta la Convenzione una limitazione del genere , e ciò ad ulteriore riprova dello spirito liberale che la pervade. E per di più, al secondo comma dell’art. 6, si prevede che “Qualora la legge scelta… non preveda l’istituzione del trust o la categoria del trust in questione, tale scelta non avrà valore e verrà applicata la legge di cui all’art. 7”, così come nel caso in cui “non sia stata scelta alcuna legge”, ai sensi del primo comma dell’art. 7. In tali casi, “il trust sarà regolato dalla legge con la quale ha più stretti legami” .
Dunque, dal combinato disposto degli artt. 6 e 7 risulta che la scelta del disponente potrebbe anche, per avventura, cadere su un ordinamento che non preveda il “trust” (come quello italiano) e tuttavia, anche in tal caso, si applicherebbe la Convenzione. Solo in mancanza della scelta, o in presenza di una scelta inutilizzabile ai sensi del secondo comma dell’art. 6, se l’ordinamento con più stretti legami non conosce il trust, la Convenzione sarà inapplicabile .

3.5.1. Il riconoscimento

Come più volte ribadito, la Convenzione mira ad individuare la legge di volta in volta applicabile al trust ed, in seconda battuta, a rendere obbligatorio il riconoscimento dei trusts che abbiano le caratteristiche evidenziate nel capitolo I e che siano regolati da una legge, scelta dal settlor (ex art. 6, 1°comma) o individuata (ex art. 7) sulla base dei parametri indicati nel capitolo II.
Proprio al “riconoscimento” è dedicato il Capitolo III (artt. da 11 a 14), cuore e motore dell’intera disciplina. In primis, va chiarito che l’espressione scelta, “riconoscimento” appunto, non è delle più felici. Essa è utilizzata, per lo più, in senso tecnico, in documenti di respiro internazionale, a proposito di provvedimenti giurisdizionali provenienti da certi ordinamenti ed efficaci in altri. Nella Conferenza si è scelto di parlare di “riconoscimento” per sottolineare che attraverso il testo normativo in questione non si voleva imporre agli stati contraenti una ricezione forzata dell’istituto in esame, ma, al contrario, soltanto una ammissione degli effetti di questo. In realtà, sul piano pratico, le due situazioni non sono tanto lontane l’una dall’altra. Accettare di riconoscere gli effetti del trust, ai sensi della Convenzione e della legge regolatrice, vuol dire aver introdotto nei vari stati una normativa, avente per oggetto un certo istituto (il trust c.d. amorfo), non solo vincolante, ma anche elastica e modificabile a seconda della scelta attuata del costituente a favore di questa o quella legge regolatrice. In altre parole, una disciplina contenitore che il settlor può, a suo piacimento, riempire di contenuti.
L’art. 11 apre il capitolo dedicato al riconoscimento ed è tra le disposizioni più importanti dell’intera Convenzione. Esso è il risultato di uno scontro di vedute tra i partecipanti alla Conferenza, avente ad oggetto la portata e le modalità del riconoscimento. Una parte dei delegati ritene che l’unica possibilità di conferire efficacia ai trusts, nei paesi che non conoscevano l’istituto, fosse quella di omologarlo forzosamente prendendo come riferimento gli istituti operanti nello stato che doveva effettuare il riconoscimento. Questa, del resto, fu la strategia adottata dalle corti europee prima del 1992 per riconoscere qualche effetto a trusts costituiti all’estero aventi conseguenze giuridiche in paesi estranei all’istituto in esame . Si trattava di una tecnica di adattamento (c.d. comparatista) che, se adottata, avrebbe certamente finito per avvilire il significato della Convenzione. L’opposta metodologia (c.d. internazionalista), accolta e codificata nell’art. 11, consiste, invece, nello stabilire una recezione incondizionata dell’istituto, con tutti gli effetti che potrebbero derivarne in base alla legge regolatrice, con i limiti costituiti dalle norme di applicazione necessarie del paese nel quale il trust realizza i suoi effetti (ex art. 15) e dell’ordine pubblico internazionale (ex art. 18). La Convenzione ha privilegiato ancora una volta la soluzione più liberale a conferma del suo carattere propulsivo nei confronti del trust.
L’art. 11, in particolare, prevede che al trust, al quale sia ritenuta applicabile la Convenzione, alcuni effetti vadano riconosciuti inderogabilmente ed altri, invece, solo se previsti o richiesti dalla legge regolatrice. Infatti, dopo aver disposto al primo comma che:
“Un trust costituito in conformità della legge specificata al precedente capitolo dovrà essere riconosciuto come trust”.
Al secondo comma si prevede che:
“Tale riconoscimento implica quanto meno che i beni del trust siano separati dal patrimonio personale del trustee, che il trustee abbia la capacità di agire in giudizio ed essere citato in giudizio, o di comparire in qualità di trustee davanti a un notaio o ad altra persona che rappresenti un’autorità pubblica.”
Questi sono gli effetti che ad un trust, al di là del fatto che la legge regolatrice li preveda o meno, si devono necessariamente riconoscere. In tal senso si può ritenere che l’art. 11, secondo comma, sia una norma di diritto materiale uniforme . A proposito, si può notare come l’imputazione al trustee, sia della capacità processuale che della capacità di agire , elimini ogni equivoco riferimento alla figura del rappresentante o del mandatario con rappresentanza, assimilando, invece, la situazione del trustee a quella degli amministratori di società e di enti morali .
L’art. 11, nel suo secondo comma, tra gli effetti c.d. necessari (o minimi, o imprescindibili) del riconoscimento fa riferimento anche se in maniera piuttosto generica, alla separazione dei beni in trust dal patrimonio personale del trustee. Ci si è chiesto quale sia la qualificazione giuridica più adatta per una tale situazione di “separazione” ed, in assenza di disposizioni convenzionali più precise, si è sostenuto che l’art. 11 si riferisca a quello che la nostra dottrina chiama patrimonio “autonomo”, ovvero a quello che viene dalla stessa definito patrimonio “separato” .
L’articolo in esame elenca, al suo terzo comma, una serie di effetti c.d. “speciali” (o eventuali), che potrebbero derivare dal riconoscimento del trust solo qualora la legge regolatrice richiedesse o prevedesse il verificarsi di tali effetti. A prima vista, e in ciò stanno le difficoltà interpretative, si direbbe che essi non sono altro che una conseguenza immediata e diretta della costituzione di un patrimonio separato. Sembra che le lettere a), b) e c) esclusivamente ribadiscano la possibilità di considerare il patrimonio in trust separato da quello del trustee.
“Qualora la legge applicabile ai trusts lo richieda, o lo preveda, tale riconoscimento implicherà, in particolare:
a) che i creditori del trustee non possano sequestrare i beni del trust;
b) che i beni del trust siano separati dal patrimonio del trustee in caso di insolvenza di quest’ultimo o di sua bancarotta;
c) che i beni del trust non facciano parte del regime matrimoniale e della successione dei beni del trustee;”
Se il trustee, personalmente, fallisce o contrae debiti, né il curatore fallimentare, né il semplice creditore potranno aggredire il patrimonio in trust. D’altra parte, il patrimonio personale del trustee non subirà le conseguenze dell’attività negoziale posta in essere dallo stesso in quanto trustee, se questi ha agito secondo i canoni di diligenza propri della sua posizione di pseudo amministratore.

3.5.3. Effetti del riconoscimento e rivendicazione dei beni in trust

La norma contenuta nella lettera d) del terzo comma dell’art. 11, esprime, per unanime riconoscimento, tutti i disagi evenienti dal trattare un istituto estraneo alla tradizione giuridica di parte dei paesi presenti ai lavori della Conferenza.
Alla lettera d) si legge:
“d) che la rivendicazione dei beni del trust sia permessa qualora il trustee, in violazione degli obblighi derivanti dal trust, abbia confuso i beni del trust con i suoi e gli obblighi di un terzo possessore dei beni del trust rimangono soggetti alla legge fissata dalle regole di conflitto del foro”.
A parte la cattiva traduzione contenuta nella versione italiana, la norma tratta un tema molto delicato: il diritto di rivendicare i beni del trust che la Convenzione riconosce al beneficiario se il trustee ha violato gli obblighi assunti con il trust ed ha confuso il patrimonio in trust con il proprio .
E’ stato sostenuto che tale disposizione sia incompatibile con il nostro ordinamento, in quanto lesiva dei diritti dei terzi in buona fede. Pur comprensibili, non paiono fondati i dubbi in tal senso sollevati. Pare, infatti, che solo un’errata interpretazione possa far nutrire perplessità sull’operatività di tale norma nel nostro ordinamento. Essa dichiara che “verso il trustee” è possibile agire con un’azione di “rivendicazione” (da non intendersi in senso propriamente tecnico), e non prende in considerazione la posizione dei terzi. Ai sensi della disposizione in esame, soltanto se i beni oggetto del trust sono ancora nel patrimonio del trustee sarà, infatti, possibile esperire tale rivendicazione e non anche nel caso in cui questi abbia, ad esempio, alienato a terzi i beni in trust. In altre parole, la norma citata non prende in considerazione qualsiasi atto che produca un breach of trust, in quanto espressamente la sua portata si riduce al caso in cui la confusione dei patrimoni in proprietà del trustee sia attuale.
Diversamente, se il trustee, dopo aver realizzato tale confusione, aliena i beni in trust, il beneficiario potrà agire verso il terzo acquirente soltanto con le tipiche azioni, e nei tipici casi, previsti dal nostro ordinamento (sempre che le norme dell’ordinamento italiano siano quelle ritenute applicabili dalle regole di conflitto del foro, ai sensi dell’art. 15). La Convenzione, infatti, all’art. 15 ribadisce quanto dall’art. 11, terzo comma, lett. d) già era desumibile, disponendo che:
“La Convenzione non ostacolerà l’applicazione delle disposizioni di legge (…) nelle seguenti materie: (…) f) la protezione (…) dei terzi che agiscono in buona fede.”
Attraverso una lettura congiunta delle due norme appena richiamate è possibile fugare, dunque, il dubbio che parte della dottrina ha sollevato .
Se anche si volesse dare un’altra interpretazione della disposizione in esame, ritenendo, come pur è stato autorevolmente fatto , che il terzo acquirente vada rintracciato nel “possessore”, di cui nell’ultima parte della norma, la conclusione sarebbe identica, in quanto la Convenzione espressamente prevede che:
“qualora la legge applicabile al trust lo richieda, o lo preveda, tale riconoscimento implicherà (…) che (…) gli obblighi di un terzo possessore dei beni del trust rimangono soggetti alla legge fissata dalle regole di conflitto del foro”.
Pare, tuttavia, più corretto ritenere che per “possessore” si debba intendere chi detiene i beni per conto del trustee, o il trustee stesso, anche perché altrimenti non avrebbe molto senso parlare di “obblighi”. Se pure così non fosse (e cioè se possessore fosse il terzo acquirente), repetita iuvant, la soluzione sarebbe identica a quella prospettata: si applicherebbe, comunque, la legge del foro. In altre parole, e riassumendo, la Convenzione in nessuna sua parte consente che nell’ordinamento italiano un beneficiario aggredisca l’acquisto del terzo in buona fede.
Un’ultima considerazione riguarda l’art. 14 che chiude il capitolo dedicato al riconoscimento. Dalla semplice formulazione di tale norma traspare ulteriormente l’entusiasmo con cui i delegati hanno trattato il trust e il favore nei confronti di tale istituto che pervade l’intera disciplina internazionale.
“La Convenzione non ostacolerà l’applicazione di norme di legge più favorevoli al riconoscimento di un trust.”
L’art. 14 manifesta pienamente l’impostazione liberale della Convenzione, la quale non costituisce in nessuna sua disposizione limiti obbligatori al riconoscimento del trust .

4.1. I trusts interni

Sono detti interni (o domestici, o tricolore) quei trusts i cui principali elementi distintivi (soggetto disponente, beni in oggetto, beneficiari, trustee) sono “collegati” al territorio di uno stato no-trust, pur avendo, come legge regolatrice, quella propria di un ordinamento che riconosce l’istituto.
Gran parte della dottrina ne ha contestato, anche dopo la ratifica della Convenzione dell’Aja, la legittimità facendo leva su almeno tre considerazioni:
1) la Convenzione, tipico strumento di risoluzione di problemi internazionalistici, è stata voluta per dissipare i dubbi, soprattutto giurisprudenziali – rilevati su scala mondiale – in merito alla operatività di quei trusts costituiti dove l’istituto è previsto e disciplinato, ma efficaci, in toto o in parte, dove il trust non è ammesso, come da noi , ovvero – secondo un’interpretazione meno restrittiva – quei trusts ovunque costituiti, purché aventi almeno un elemento di internazionalità;
2) il nostro legislatore non ha approntato alcuna legge volta a disciplinare l’istituto in questione ed a regolamentarne l’operatività;
3) il trust, per sua natura, si scontra con i principi cardine del nostro sistema e non si adatta assolutamente ad operare in un sistema di civil law.
A tali argomentazioni, che tra loro si completano e si reggono, in parte si è già risposto quando si è evidenziato che l’istituto in esame non manifesta – se non in chiave patologica – incompatibilità con il nostro ordinamento. Si è, infatti, già rilevato, nel corso della presente riflessione, che il trust creato all’Aja, e oggetto della Convenzione in esame, in sé non viola alcuno dei principi fondamentali del nostro ordinamento. Prova ne sia il fatto che altri paesi di civil law lo hanno accolto senza traumi. A supporto di quanto appena ribadito, giova ricordare che l’art. 15 della Convenzione funziona come “clausola di salvaguardia”, in quanto impedisce al trust – da questa coperto ed in virtù della stessa riconosciuto – di violare disposizioni imperative dell’ordinamento di riferimento inerenti a materie determinate e tassativamente individuate. Se, cioè, un giudice dovesse verificare che un trust ha effetti fraudolenti, ne potrebbe disconoscere l’operatività. E ciò anche perché – al di là delle materie espressamente tutelate dall’art. 15 – l’art. 18, a completamento del meccanismo di chiusura e salvaguardia, permette all’operatore nazionale, e al giudice più precisamente, di non osservare la Convenzione quando l’applicazione di questa sia manifestamente incompatibile con l’ordine pubblico.
Del resto, già quando all’art. 2 si descrive la struttura del trust oggetto della Convenzione – ed essa risulta diversa da quella propria del trust anglosassone, basata (come detto, solo apparentemente) sulla dual property – si elimina il primo e più importante elemento che avrebbe potuto ostacolare l’operatività dell’istituto nei paesi di civil law. Sulla base delle considerazioni appena svolte si può ritenere superata la terza obiezione; rimangono le prime due.
E’ incontestabile l’esigenza di un intervento legislativo volto a regolare l’istituto del trust in Italia, ma la mancanza di una apposita disciplina interna non deve trarre in inganno . Sarebbe comodo averne una, ma non è indispensabile ai fini del riconoscimento dell’operatività del trust. La Convenzione, infatti, consente (art. 6) al settlor di scegliere la legge che preferisce, tra quelle degli stati che ne possiedono una, al fine di regolare il proprio trust. Per quanto residua (e cioè per problemi specificamente di adattamento interno), in assenza di indicazioni legislative, spetterà alla giurisprudenza, di volta in volta, dettare tempi, modi e condizioni dell’operatività del trust nei nostri confini, nel rispetto dei limiti predisposti dalla Convenzione stessa. Ciò non deve allarmare . Non è la prima volta che il diritto pretorio si sostituisce, efficacemente al dettato legislativo. Basti, per fare un esempio, pensare alle vicende del contratto-diritto di multiproprietà. Sono decenni che tale schema negoziale è utilizzato in Italia. Negli ultimi anni, poi, l’istituto in questione, di origine angloamericana, ha avuto in tutta la penisola un vero e proprio boom applicativo favorito dalla forte vocazione turistica della nostra economia, vocazione che trova in esso un valido strumento operativo. Da tempo ci si attende un intervento del legislatore che indichi precisamente la disciplina da applicare a questa figura atipica per il nostro ordinamento che si è tuttavia imposta nel diritto vivente. In mancanza di tale intervento normativo, la giurisprudenza, dopo anni di riflessione e di comprensibile incertezza, pare oramai decisa ad applicare, cum grano salis, le regole dettate in tema di condominio dal codice civile.
Attraverso questi comodi argomenti, l’art. 6 della Convenzione e la consolidata prassi giurisprudenziale, si supera anche la seconda obiezione. Rimane da affrontare e superare la prima (obiezione internazional-privatistica), che è poi probabilmente la più impegnativa e certamente la più significativa per coloro i quali riconoscono alla Convenzione un’efficacia afferente solo ai trusts internazionali.

4.2.1. La Convenzione dell’Aja come convenzione di diritto uniforme

E’ innegabile che la convenzione sia un tipico strumento di diritto internazionale , e che quando più stati si impegnano nel realizzarne una lo facciano per regolare i loro reciproci rapporti. E’ evidente, infatti, che l’Argentina – tanto per fare un esempio – non ha alcun interesse ad imporre all’Italia il riconoscimento dei trusts interni, ma solo di quelli costituiti da cittadini argentini o, comunque, in qualsiasi modo collegati all’ordinamento argentino (appunto i trusts internazionali).
Come già detto, nelle intenzioni dei delegati durante la Conférence, c’era il proposito iniziale di superare definitivamente le incertezze che in tema di trust avevano caratterizzato le pronunce delle corti di civil law . Dagli atti risulta che all’inizio dei lavori, sia a livello di comitato di esperti che nella sede diplomatica, l’obiettivo della Convenzione era essenzialmente quello di permettere ai trusts costituiti nei sistemi di common law di operare nei sistemi di civil law ed in particolare nei sistemi dell’Europa continentale occidentale. Sennonché, nel corso dei lavori, e dunque della stesura della Convenzione, si andò oltre il risultato prefissato. Nel clima di fiducia per il trust che nella Conférence si era creato, i rappresentanti degli stati intervenuti pensarono bene di non porre freni ad un istituto che tanto interesse destava in tutto il mondo.
Una serie di dati testuali conferma questa tesi. Basti, per adesso, segnalare un elemento sul quale si tornerà: la particolarità dell’oggetto della normativa in esame, in quanto istituto non conosciuto dai paesi di civil law, imponeva qualcosa in più della semplice e tradizionale operazione internazional-privatistica di risoluzione dei conflitti tra norme di ordinamenti diversi. Sviluppando questa considerazione, appare evidente come la Convenzione, superati gli obiettivi iniziali tipicamente internazional-privatistici, si sia sviluppata sostanzialmente, anche se non formalmente, come Convenzione di “diritto uniforme”.
Spiegare perché nella Convenzione dell’Aja siano state introdotte tracce di diritto uniforme è in uno con l’evidenziare come, soprattutto in alcuni settori commerciali e finanziari in espansione, sia fortemente sentito il bisogno di uniformità. Parallelamente alla espansione di detti mercati, si registra a livello globale un’esigenza di omologazione degli strumenti giuridici a servizio degli operatori, i quali oramai si muovono in uno spazio economico sempre meno frantumato . La duttilità e l’elasticità che generalmente si riconoscono al trust, lo rendono – quanto pochi altri istituti – utile ad un sistema economico che voglia, oggi che più di ieri è chiamato a confrontarsi con gli altri, essere e restare competitivo. In altre parole, se in alcuni contesti è possibile utilizzare il trust ed in altri no, adesso che è più facile muovere capitali e patrimoni, è fin troppo facile prevedere che questi ultimi si sposteranno in quelle “isole felici” dove il nostro è di casa. Ciò implica che, se la Convenzione avesse come unico effetto quello ab origine nelle intenzioni dei delegati (risolvere i conflitti sull’applicazione delle leggi ), il legislatore italiano avrebbe con entusiasmo, e senza prendere alcuna precauzione, ratificato e reso esecutiva una disciplina che promette ingenti vantaggi solo ai paesi che riconoscono il trust e che, di contro, realizza le premesse per una fuga di capitali, prevedibile e probabile, dai paesi che non lo riconoscono. Ad una tale conclusione, che comporterebbe pesanti conseguenze economiche e che rivelerebbe un’ingenuità del nostro legislatore alla quale è preferibile non credere, non è necessario giungere. E’ evidente, infatti, che la Convenzione è strutturata in modo tale da consentire (senza imporre) al legislatore interno di riconoscere anche i trusts “domestici” negli stati che non hanno una normativa propria sul trust . In particolare, a tale proposito, pare determinante rinviare a quanto di qui a poco si dirà in merito all’art. 13.
In altre parole, la Convenzione va interpretata in modo tale che la disciplina in sé non nuoccia economicamente a nessuno. Ciò è possibile solo se si ammette che essa lascia, ai singoli stati che non riconoscono i trusts, il potere di favorire, non riconoscendo quelli interni, o, al contrario, di neutralizzare, non dimostrando ostilità nei confronti degli stessi, il pericolo di fughe di capitali. La scelta realizzata dai delegati era, in realtà, inevitabile: quale paese di civil law avrebbe altrimenti ratificato, derivando ad esso, da tale ratifica, soltanto uno svantaggio economico?
Una prima obiezione alla tesi ora esposta potrebbe essere: perché, una volta ammessa l’esigenza di una normativa uniforme, se tale strada si voleva perseguire in sede di Conferénce, invece di consentire (per giunta a contrario), – come oggi è, ai sensi dell’art. 13 – ad ogni stato di non riconoscere i trusts interni, non si è esplicitamente fatto obbligo di riconoscere il trust in quanto tale?
Tale obiezione è facilmente superabile ove si rilevi che è proprio quest’ultimo il complesso risultato raggiunto dalla Convenzione del 1985: creare un trust valido ed efficace di per sé (il trust c.d. amorfo); introdurre nei singoli ordinamenti, anche no-trust, l’istituto in quanto tale; renderlo immediatamente operativo anche dove nessuna norma interna lo preveda. Una volta realizzato tale risultato, sarebbe stata un’inutile e controproducente forzatura imporre un certo comportamento agli stati in riferimento ai trusts interni. La Convenzione li sponsorizza, non distinguendo i trusts interni dagli altri e, dunque, facendoli rientrare tra i trusts oggetto della disciplina convenzionale, ma poi permette ad ogni singolo paese che non voglia riconoscerli di utilizzare l’art. 13. E del resto – come detto – non poteva essere altrimenti. In prima battuta, perché è preferibile lasciare ampie libertà agli stati contraenti ai fini di una più larga possibilità di ratifica. In seconda, perché un simile risultato era forse al di fuori delle funzioni statutarie della Conferénce de la Haye e dei poteri dei delegati, pur essendo, tali attribuzioni, espressamente finalizzate all’unificazione progressiva del diritto internazionale privato .
Così argomentando, è possibile superare anche un’eventuale seconda obiezione: la Convenzione, interpretata in tal modo, sarebbe illegittima per ecceso di delega. L’art. 13, come meglio si vedrà, sottraendo gli stati ad ogni obbligo di riconoscimento delle situazioni puramente interne, salva la Convenzione da ogni dubbio inerente alla competenza dei delegati. Attraverso l’efficace – seppur per certi versi ambigua – strategia legislativa adottata, sono stati raggiunti due risultati: 1) creare una disciplina tendenzialmente uniforme che permettesse al trust di operare a livello globale; 2) tranquillizzare gli stati in ordine alle ripercussioni che una tale operazione avrebbe avuto sugli ordinamenti interni.

4.2.2. Ulteriori precisazioni sulla natura della Convenzione

Come anticipato, gli stati non hanno interesse a che, all’interno di uno qualunque di essi, i cittadini possano creare domestic trusts e sono, invece, naturalmente attratti dalla possibilità di riconoscere efficacia generalizzata ai trusts c.d. transfrontalieri. Pur assumendo ciò, preme rilevare che la stessa Conferenza di diritto privato internazionale ha già derogato a tale principio prima del 1985, e precisamente nella Convenzione di Roma sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali . In quella sede, infatti, si ritenne, e così si dispose all’art. 3, che anche un contratto stipulato tra due soggetti appartenenti allo stesso ordinamento, qualora fosse regolato, per scelta dei contraenti, da una legge straniera, fosse da ritenere “internazionale” e ricadesse nell’ambito di applicazione della Convenzione .
Che interesse potevano avere gli stati che hanno realizzato la Convenzione di Roma del 19 giugno 1980 a porre in essere una disciplina che si applica anche alle fattispecie che non presentano altri elementi di internazionalità, oltre alla legge, dalle stesse parti, scelta? Probabilmente lo stesso che ha mosso gli stati a realizzare una Convenzione, quella dell’Aja sui trusts, che prevede che ogni giudice riconosca anche i trusts puramente interni, sempre che rispondano ai requisiti enunciati nel primo capitolo della Convenzione e che tale possibilità non sia stata espressamente esclusa dal proprio ordinamento. Identiche sono le due situazioni: identici devono esserne gli effetti. Merita di essere rilevata la circostanza per cui, nella recente legge n. 218 del 1995 di riforma del nostro diritto internazionale privato, all’art. 57, si richiama l’intera Convenzione di Roma e la si dichiara applicabile ad ogni obbligazione contrattuale e, soprattutto, “in qualunque caso”. Tale disciplina è, dunque, entrata a pieno titolo tra le disposizioni preliminari al codice civile e ciò dimostra che il nostro legislatore non avversa il meccanismo realizzato dal citato art. 3 .
Andrebbe, in quest’ottica, rivisitata interamente la stessa nozione tradizionale di Convenzione di diritto privato internazionale e riformulato, forse, anche l’art. 1 dello statuto della Conférence de la Haye, in quanto oggi le esigenze di armonizzazione portano a conseguenze estreme che allo stato delle cose possono sorprendere, ma non devono trovare impreparati . E’ in questo senso, e solo in questo senso, che si può parlare di Convenzione di diritto uniforme, sia per l’uno che per l’altro testo normativo a cui in questo paragrafo si è fatto riferimento. E’ chiaro che quella dell’Aja non è, stricto sensu, una disciplina uniforme, in quanto manca degli elementi formali e sostanziali necessari a quello scopo , ma certo di questa presenta alcuni requisiti e realizza, nella parte di cui abbiamo già detto, un effetto proprio del diritto uniforme. A questa conclusione è necessario giungere se consideriamo che le due Convenzioni, quella del 1980 e quella del 1985, si muovono in tal senso; anche perché, altrimenti, pur risolvendo i conflitti sull’applicazione delle leggi, esse avrebbero realizzato situazioni di irrazionale diseguaglianza tra cittadini e stranieri. Paradossalmente, cioè, nello stesso ordinamento, situazioni analoghe sarebbero state trattate in maniera differente .
Riepilogando quanto fin qui detto, si può sostenere che il mercato unico globale fa sì che operatori provenienti dai sistemi giuridici più vari possano muoversi liberamente all’interno dello spazio economico che più li interessa. Ciò ammesso, è facile verificare come una disciplina, che voglia soltanto risolvere conflitti tra leggi di stati diversi, finisca, in alcuni casi, per trattare situazioni analoghe in modo differente all’interno di uno stesso sistema economico, così alterando i rapporti di scambio e orientando pericolosamente i flussi finanziari in questa o quella direzione. Sulla base di tali premesse, pare oggi necessario – al fine di dare un senso e un’efficacia concreta alle Convenzioni di diritto internazionale privato – riconoscere che esse possono, quando necessario, andare oltre la mera risoluzione del conflitto tra leggi fino a promuovere frammenti di disciplina uniforme sufficienti a realizzare condizioni egualitarie tra gli operatori del sistema-mondo.
Ad ulteriore prova di quanto sostenuto, va nuovamente sottolineato che un’operazione di semplice soluzione di conflitto tra norme, nel caso del trust, non era concretamente possibile.
Il trust era, ed è, disciplinato a livello nazionale in diversi ordinamenti, quasi tutti di common law, ma il riconoscimento incrociato dell’efficacia del trust stipulato in tali stati non dava, e non dà, seri problemi. Ciò in quanto il trust è un tipico istituto “modello” che circola, ed ha circolato, senza inconvenienti, lì dove è previsto e regolato. La Convenzione ha, dunque, ragione di esistere solo se ratificata da stati di civil law, ed, infatti, suo scopo precipuo è quello di ridurre l’attrito che il riconoscimento del trust in ordinamenti no-trust produce. Mancando, in tali ordinamenti, norme riguardanti l’istituto in esame, non aveva senso creare una normativa di risoluzione di conflitti improbabili. La Convenzione sui trusts, dunque, non poteva essere, e non è, la tipica Convenzione di diritto internazionale privato. Ad essa si chiedeva di più ed essa ha dato di più: ha creato un istituto nuovo (il c.d. trust “amorfo”) individuando una fattispecie che non distingue mai espressamente trusts interni e internazionali; lo ha imposto agli stati che hanno ratificato, anche se questi non conoscevano tale istituto neppure lontanamente; ed ha approntato una disciplina ad hoc abbastanza puntuale.
E’ stato efficacemente evidenziato , che la disciplina posta nel 1985 non segue gli schemi tipici delle Convenzioni dell’Aja, in quanto il suo nucleo centrale non è costituito dalla predisposizione di norme che regolino i conflitti di applicazione tra leggi di stati diversi, bensì dal riconoscimento da parte di un paese firmatario degli effetti di un meccanismo giuridico, ancorché esso sia estraneo al suo sistema tradizionale. In breve, dunque, – giova ripeterlo – la Convenzione acquista significato solo ove venga ratificata da un paese no-trust, perché in tal modo si rende possibile la circolazione ragionata ed organizzata di un modello.
A sostegno di quanto appena sostenuto, viene, innanzitutto, ancora la Convenzione di Roma del 1980, ed in particolare l’art. 1. Esso statuisce, nel suo primo comma, che:
“Le disposizioni della presente Convenzione si applicano alle obbligazioni contrattuali nelle situazioni che implicano un conflitto di leggi”.
Malgrado questa esplicita dichiarazione di apertura, da più parti la dottrina ha rilevato che alcune sfumature della disciplina risultante dalla Convenzione di Roma sono chiaramente di diritto uniforme. Se ciò è vero per il testo normativo da ultimo citato, ancora di più deve risultare evidente per la Convenzione sui trusts, in quanto in essa, non solo non c’è alcun articolo somigliante all’art. 1 di cui sopra, ma si trovano sparse tracce di uniformazione. Una mera Convenzione di diritto internazionale privato, volta a regolare l’applicazione delle leggi nei casi di conflitto, non contiene certo una disciplina puntuale ed una definizione tanto tecnica e precisa della fattispecie colpita, quanto invece vorrebbe esserlo (anche se ci riesce solo in parte) quella contenuta negli artt. 2-5 della Convenzione realizzata dalla Conférence de la Haye .
La disciplina, che la Convenzione appronta per individuare il suo ambito di applicazione e la fattispecie rilevante, è – come già visto – particolarmente dettagliata. Essa ritaglia su misura una veste normativa che rende quello in oggetto (c.d. trust amorfo) un trust notevolmente diverso dal modello tradizionale anglosassone. Una volta elaborato un trust senza ombra di doppia proprietà, e garantiti entro certi limiti i diritti dei beneficiari e l’incolumità del patrimonio in trust, si è riusciti a manipolare l’istituto fino al punto di renderlo pienamente utilizzabile anche negli stati di civil law.
Del resto, l’entusiasmo con cui nella Conférence è stato trattato il trust e il carattere notevolmente incentivante del testo normativo adottato non vengono messi in dubbio da nessuno. Si deve, dunque, ammettere, visto che nella stessa mai si distinguono gli interni dai c.d. transfrontalieri, che la Convenzione senza dirlo espressamente finisce per coprire tutti i trusts , che abbiano determinate caratteristiche . E, di conseguenza, che ratificando tale Convenzione l’Italia si è impegnata a riconoscere il trust, figlio della stessa, in quanto tale .

4.3.1. Le norme della Convenzione ed i trusts interni

La Convenzione in nessuna norma enuncia la nozione di trust estero, o internazionale, né più generalmente di trusts rispetto ai quali le norme sul riconoscimento non trovano applicazione a causa della mancanza di elementi di estraneità al foro. La Convenzione si riferisce sempre al trust in quanto tale.
D’altra parte, la tecnica legislativa avrebbe richiesto di inserire l’eventuale limitazione nell’art. 6 , escludendo dall’ambito di applicazione della Convenzione stessa i trusts costituiti dai cittadini di uno stato che non conosce l’istituto. La via corretta per raggiungere un tale scopo sarebbe stata quella di restringere la libertà del disponente nella scelta della legge applicabile al trust, ad esempio, imponendo la legge dello stato di appartenenza del disponente e permettendo, solo se quest’ultima prevedesse il trust, di scegliere la legge di un qualsiasi altro stato. Così facendo, i cittadini italiani, ad esempio, non avrebbero potuto costituire trusts perché a questi si sarebbe applicata la legge italiana che non li riconosce. La Convenzione non ha imboccato questa strada ed, anzi, ha seguito quella opposta quando, nel 2° comma dell’art. 6, ha disposto: “Qualora la legge scelta… non preveda l’istituzione del trust…”. Quindi, si è persino pensato al caso, ad esempio, di un italiano che costituisca un trust stabilendo che esso sia regolato dalla legge italiana .
A conferma di quanto qui sostenuto viene in rilievo l’art. 15 . Con esso la Convenzione fa salve le disposizioni inderogabili del foro in materia di legittima, protezione dei creditori, trasferimento di proprietà, protezione dei terzi in buona fede, e così via. E’ chiaramente questa una disposizione voluta perché fosse applicata ai trusts costituiti da chi è normalmente sottoposto ad una legge che non conosce il trust. In common law, infatti, e nei paesi di civil law che hanno emanato leggi sul trust, tali problemi sono stati in quella sede risolti.

4.3.2 L’art. 13 della Convenzione

Non accogliendo la tesi sostenuta nel corso di questo contributo, e dunque preferendo sostenere l’applicabilità della Convenzione ai soli trusts con elementi di internazionalità, si finisce per legittimare una situazione nella quale i cittadini degli stati no-trust sono discriminati all’interno dei propri ordinamenti nei confronti degli stranieri. Ciò, in quanto basta che il settlor sia straniero per rendere la fattispecie internazionale e, dunque, ritenere sicuramente applicabile la Convenzione. Nell’ottica fino ad ora seguita non pare possibile giustificare tale differenziazione. Essa, inoltre, probabilmente non resisterebbe nel nostro ordinamento, al vaglio di legittimità costituzionale, per violazione dell’art. 3 Cost. Non sembra corretto, infatti, consentire a stranieri di istituire trusts, ad esempio, su beni immobili siti in Italia, con un trustee italiano e con beneficiari di nazionalità italiana , negando la stessa possibilità agli italiani. Eppure sarebbero proprio queste le conseguenze evenienti da una interpretazione dell’art. 13 diversa da quella che qui si propone.
Inoltre, se l’operatività del trust nel nostro ordinamento crea problemi, e si è più volte avvertito che tali problemi sono tutt’altro che insuperabili (anche alla luce dei citati artt. 15 e 18), si tratta degli stessi problemi creati da un trust definito internazionale.
Qualora si ammettesse la legittimità di una tale discriminazione, si porrebbe all’interprete un ulteriore serio problema: quando un trust va definito internazionale? Quando gli elementi caratterizzanti di natura transfrontaliera sono uno, due, o tutti quelli propri di quel trust? L’art. 13 della Convenzione, a questo proposito, assume rilevanza fondamentale. Tale articolo dispone che:
“Nessuno Stato è tenuto a riconoscere un trust i cui elementi importanti (non uno o più, ma “i”: tutti. n.d.a.), ad eccezione della scelta della legge da applicare, del luogo di amministrazione e della residenza abituale del trustee, sono più strettamente connessi a Stati che non prevedono l’istituto del trust o la categoria del trust in questione”.
Interpretato e letto a contrario esso dice che: ogni stato “può” non riconoscere trusts che abbiano “tutti” gli elementi importanti in stretta connessione con ordinamenti che non prevedono il trust o quel particolare tipo di trust. Resta da chiarire cosa si intenda per “stretta connessione”, in tal senso l’art. 13 non aiuta a rispondere alla domanda che prima ci si è posti.
Esso è, invece, utile a chiarire che per essere definito interno un trust deve avere contemporaneamente non uno o più, ma “tutti” gli elementi importanti (settlor, oggetto, beneficiari, trustee) appartenenti allo stesso ordinamento. Questa interpretazione dell’art. 13 pare la sola possibile, visto che la versione ufficiale inglese utilizza espressamente l’articolo determinativo “the” innanzi alla locuzione “significant elements” e visto che nell’art. 13 si è sentito il bisogno di inserire tre eccezioni espresse, tre significant elements che, anche se connessi ad altri ordinamenti, non rendono quello in questione un trust c.d. transfrontaliero. Non è questa la sede adatta per rilevare quanto nella lingua inglese sia puntuale l’utilizzazione dell’ articolo, determinativo o indeterminativo. Viceversa, è proprio qui che si deve segnalare come la scelta operata dalla Conférence non possa essere sottovalutata, in quanto, stando così le cose, lo si ripete, un cittadino inglese può sicuramente costituire, senza timori di mancato riconoscimento, in Italia un trust presso un trustee italiano, su beni immobili siti in Italia e con beneficiari italiani.
L’operazione ermeneutica compiuta leggendo a contrario l’art. 13 pare necessaria. Da un inquadramento sistematico della norma, infatti, risulta che, durante i lavori, i delegati si sono accorti di aver creato una disciplina che imponeva agli stati di riconoscere tutti i trusts aventi certi requisiti (c.d. amorfi) e che, dunque, non si limitava a risolvere eventuali problemi di riconoscimento di quelli c.d. transfrontalieri. Temendo di essere andati oltre le proprie attribuzioni e deleghe, essi hanno introdotto una norma che salvava il salvabile senza toccare l’impianto liberale della Convenzione: la ratifica non impone agli stati che non ammettono il trust il riconoscimento dei trusts interni, visto che viene loro riservata la facoltà di dare disposizioni in senso contrario. Una corretta interpretazione dell’art. 13 finisce, dunque, per corroborare la tesi della piena operatività dei trusts interni, salvo espressa presa di posizione contraria del legislatore nazionale. La norma in esame è, in altre parole, la via di fuga lasciata agli stati che pur ratificando la Convenzione non vogliono ammettere i trusts interni. Il nostro legislatore, però, non ha in alcun modo manifestato avversione nei confronti di tali trusts ed, al contrario, il fatto che l’Italia sia tra i pochi paesi che hanno ratificato la Convenzione, rapidamente e senza prima emanare disposizioni interne , dimostra la totale disponibilità e simpatia nei confronti dell’istituto. In altre parole, l’art. 13 dava al nostro legislatore una possibilità di cui esso non ha voluto usufruire.
Pare difficile attribuire altra portata all’articolo in esame, in quanto altrimenti finirebbe per risultare un doppione rispetto agli artt. 15 e 18, di cui si è già detto.
Sulla base di tali premesse risulta che, in mancanza di un intervento legislativo, spetterà ai giudici decidere caso per caso se un trust, interno o internazionale che sia, vada riconosciuto, ovvero respinto ai sensi degli artt. 15 o 18. Il giudice potrebbe, in forza di tali articoli, rifiutare il riconoscimento solo qualora quel determinato trust risultasse in antitesi con principi cardine del nostro sistema giuridico. Del resto, si è già rilevato che quando nella Conferénce del 1985 si discuteva in termini di “riconoscimento” ci si rivolgeva direttamente ai giudici. La Convenzione nasce, infatti, per orientare il comportamento delle corti e non per imporre o ispirare un intervento del legislatore nazionale.

4.4. Un altro modo per riconoscere l’operatività dei trusts interni

Se anche si volesse non tener conto di tutte le considerazioni svolte finora, e si volesse continuare a sostenere che la Convenzione permette esclusivamente il riconoscimento degli effetti che nel nostro ordinamento realizza un trust con almeno un elemento importante “connesso” ad un altro stato, e cioè un trust internazionale, in virtù di una lettura – per così dire – “astringente” dell’art 13 (c.d. tesi internazional-privatista), non si potrebbe, secondo chi scrive, negare che, comunque, almeno dopo il 1° gennaio 1992 al trust interno vada riconosciuta dignità e piena cittadinanza nel nostro ordinamento. A tale conclusione è, infatti, possibile giungere anche attraverso un itinerario logico diverso rispetto a quello qui preferito. Parte della dottrina ha provato a sostenere che in Italia i privati avrebbero la possibilità di porre in essere un trust interno come atto negoziale atipico in virtù di quel principio di libertà negoziale che pervade l’intero ordinamento.
Il 2° comma dell’art. 1322 c.c. esplicita la portata del principio e il contenuto del diritto che l’ordinamento riconosce al singolo. L’art. 41 della Costituzione, a sua volta, proclama solennemente, al suo primo comma, che “l’iniziativa economica privata è libera” (entro certi limiti), così manifestando la propria vocazione garantista nei confronti del principio in questione, e certamente riconoscendo come qualificato e meritevole di tutela l’interesse a svolgere attività economica. Dunque, i cittadini italiani possono utilizzare in fattispecie completamente interne, il negozio di trust anche sulla base dell’art. 1322 c.c., in quanto la libertà di iniziativa economica si estrinseca nella possibilità di utilizzare anche modelli negoziali non tipicamente previsti. Il giudice che si trovi a dover valutare l’efficacia e la validità di un negozio atipico dovrà soltanto compiere una valutazione specifica circa l’effetto “concreto” di tale atto.
E’ nell’ottica di tale ultima considerazione che si muove l’obiezione, sollevata da parte della dottrina, alla sussunzione del trust sotto il principio di autonomia negoziale. Si sostiene, infatti, che l’assetto di interessi effetto del trust non sia compatibile con il principio di tipicità delle situazioni di patrimonio autonomo, o separato, di cui all’art. 2740, 2° comma c.c. . In altre parole, la separazione (rectius, segregazione) del patrimonio in trust rispetto al patrimonio del trustee, in quanto non prevista da alcuna norma di legge, violerebbe un limite espressamente posto alla libertà negoziale. Se così fosse, il giudice dovrebbe dichiarare che l’atto di trust non è meritevole di tutela e, al più, potrebbe cercare di dargli una diversa qualificazione giuridica, così che esso realizzi comunque parte degli effetti originariamente desiderati. Si riferirà, nel far ciò, ora a questo ora a quell’istituto operante nel nostro ordinamento a seconda delle esigenze del caso e il trust avrà, dunque, ora gli effetti di un contratto a favore di terzo, ora di un mandato, e così via.
Le cose, in realtà, stanno diversamente. Pur interpretando la Convenzione nel senso più restrittivo, infatti, non si può disconoscere che una nuova fattispecie legale di patrimonio separato è stata, con essa e naturalmente per mezzo della legge di ratifica, introdotta dal legislatore nel nostro panorama civilistico. Si ammette, infatti, senza eccezioni che se un cittadino straniero costituisce un trust con tutti gli elementi dotati di internazionalità e nomina trustee un italiano tale trust va riconosciuto ai sensi e per gli effetti della Convenzione dell’Aja. Tra questi effetti l’art. 2, comma 2°, lett. a) prevede espressamente la separazione del patrimonio in trust rispetto a quello di tale trustee.
Tra le deroghe all’art. 2740 c.c., dunque, certamente bisogna annoverare oggi, non solo il fondo patrimoniale familiare, l’accettazione di eredità con beneficio di inventario, il capitale mobiliare gestito dalle SIM e quant’altro, ma anche, in capo al trustee, il patrimonio di un trust con settlor straniero. Una volta acclarato quanto sopra, non pare corretto impedire, in virtù del principio di cui all’art. 2740 c.c., ad un italiano di porre in essere tale separazione patrimoniale attraverso un trust interno. Gli effetti di questa separazione in capo al patrimonio ed alla situazione giuridica del trustee, infatti, saranno identici nel caso in cui settlor sia uno straniero o un italiano. In ciò sta la speculare somiglianza tra le due situazioni che non consente trattamenti diversificati. Lecito, di contro, sarà che il giudice valuti, ai sensi dell’art. 1322, 2°comma c.c., la compatibilità della sola causa concreta del trust interno realizzato, in quanto esso – sempre secondo la tesi internazional-privatista, dalla quale in questo paragrafo si è preso le mosse – non è coperto dalla Convenzione ed è dunque un negozio atipico, cosa invece non ipotizzabile in caso di trust internazionale .
Si è giunti, dunque, attraverso questa diversa strada, alla stessa identica conclusione a cui si era approdati attraverso la ricostruzione che si continua a preferire: il giudice chiamato a confrontarsi con un trust interno dovrà, una volta accertata la liceità della causa, ammetterne tutti gli effetti tipici, a meno di gravi motivi di ordine pubblico o di violazione di norme imperative.

4.5. Considerazioni conclusive sul trust in Italia

Alla luce di quanto esposto nel corso della presente riflessione, risulta evidente che il matrimonio tanto atteso tra trust e ordinamento italiano, probabilmente, si è oramai celebrato, seppur all’insaputa di parte della dottrina. Non si tratta più, dunque, di organizzarlo o di discuterne l’opportunità. Si tratta adesso, esclusivamente, di prenderne atto, come dimostrano alcuni recentissimi casi giurisprudenziali. Ci si riferisce, in particolare, ad una pronuncia del giudice del registro del Tribunale di Genova e ad una di quello del Tribunale di Milano, oltre che alla sentenza del Tribunale di Lucca del settembre 1997 .
Nel primo caso la fattispecie ha riguardato un trustee che, avendo deciso di svolgere in Italia attività imprenditoriale per meglio gestire il patrimonio (denaro) in trust, ha costituito una s.r.l. unipersonale in qualità proprio di trustee. Il giudice di Genova ha riconosciuto che, nel caso in questione, presupposto della costituzione della società era l’esistenza e l’efficacia del trust, ed ha, senza titubanze, omologato motivando: “visto il trust costituito”. Va detto che nella fattispecie il trust era interamente italiano e che il giudice, non sollevando alcuna obiezione in proposito, ha probabilmente realizzato il primo caso italiano di riconoscimento giurisprudenziale del trust interno.
La questione decisa dal giudice del registro del Tribunale di Milano è diversa da quella appena esposta e stimola ad ulteriori considerazioni . Nel dicembre del 1996 è stata omologata una deliberazione societaria riguardante un trust avente la finalità di garantire gli obbligazionisti della stessa società, la quale intendeva emettere un prestito obbligazionario assistito da garanzie reali . La società in questione era proprietaria di immobili ed avrebbe potuto quindi iscrivere ipoteca su di essi, a norma degli artt. 2410, n.1 e 2414 c.c. Vi ostavano però due ragioni: in primo luogo, considerato che in Italia le lungaggini delle procedure immobiliari rendono realizzabile la garanzia ipotecaria in modi e tempi, da un punto di vista prettamente finanziario, quanto meno scomodi, gli investitori difficilmente avrebbero sottoscritto obbligazioni garantite da ipoteca; in secondo luogo, la società aveva esigenza di porre a garanzia degli obbligazionisti anche i canoni di locazione degli immobili (e tale risultato non è perseguibile in Italia se non, oggi, con un trust).
Per raggiungere lo scopo prefissato è stata, dunque, costituita una società immobiliare di diritto inglese, alla quale la società emittente ha conferito i beni immobili. Le azioni di tale immobiliare, di proprietà della società emittente, sono state poi trasferite ad un trustee (una società fiduciaria milanese) istituito con un trust di scopo. Tale trust, costituito contestualmente, è stato sottoposto alla legge di Jersey ed ha potuto così godere del riconoscimento imposto dalla Convenzione dell’Aja. Beneficiari di tale trust sono gli obbligazionisti, il cui credito il trustee deve soddisfare (d’accordo con l’enforcer nominato nell’atto di trust) qualora, al sopraggiungere del termine finale previsto, egli accerti che non è avvenuto il rimborso del prestito obbligazionario. Il trustee si è impegnato, inoltre, ad amministrare gli immobili, ad investire prudentemente i canoni al netto delle spese di gestione, a non distribuire utili per tutta la durata del trust ed a trasferire al disponente quanto sia residuato dopo aver eventualmente soddisfatto gli obbligazionisti.
E’ evidente la legittimità di un tale trust nel nostro ordinamento visto che esso non viola alcun principio garantito, ex art. 18 o ex art. 15, dalla Convenzione. Il giudice del registro era, dunque, obbligato al riconoscimento. Nel caso in questione la società italiana che ha emesso le obbligazioni, probabilmente, ha preferito non correre rischi ed infatti, per dare al trust natura transfrontaliera, ha istituito la immobiliare di diritto inglese. Non sfugga, però, che soltanto formalmente l’oggetto del trust non ha connessioni con il nostro ordinamento, in quanto è costituito da azioni della immobiliare che è sottoposta al diritto anglosassone. Sostanzialmente oggetto del trust sono gli immobili siti in Italia e conferiti appositamente in tale società. Dunque, quello in questione è un vero e proprio trust tricolore ben camuffato. Si è già evidenziato come appaia sconveniente, sia dal punto di vista strettamente giuridico che da quello economico, costringere i cittadini italiani a porre in essere meccanismi simili a quello ideato dalla società milanese, volti ad eludere il presunto divieto di istituire trusts interni.
Tra i precedenti giurisprudenziali in materia di trust, particolare importanza va riconosciuta alla sentenza con cui, il 23 settembre 1997, il Tribunale di Lucca ha risolto il primo caso italiano attinente all’istituto in esame dopo l’entrata in vigore della Convenzione dell’Aja.
La fattispecie riguarda un trust testamentario istituito da un cittadino italiano – residente negli Stati Uniti e proprietario di beni immobili in entrambi i paesi – ed avente beneficiari italiani. Il disponente, per testamento, aveva trasferito al trustee tutto il suo patrimonio, disponendo che questi lo amministrasse, discrezionalmente, per tutta la vita della figlia, al fine di garantire rendite periodiche a favore di questa e dei suoi figli (nipoti del de cuius) fino a che il più giovane non avesse raggiunto il venticinquesimo anno di età, momento in cui avrebbe dovuto dividere il patrimonio residuo in parti uguali tra i nipoti. Il testamento veniva impugnato dalla figlia del de cuius, presunto settlor, la quale contestava l’efficacia di quel trust in Italia ed assumeva che, in ogni modo, questo violasse la sua quota di legittima e che fosse contrario alle norme vigenti nell’ordinamento italiano a proposito di forma degli atti mortis causa e di sostituzione fedecommissaria. In forza di tali motivi chiedeva che fosse accertata la nullità del testamento in questione.
Il Tribunale, chiamato a pronunciarsi sulla spinosa questione, ha fondato la sua decisione su un’interpretazione della Convenzione dell’Aja in linea con quella auspicata nel corso della presente riflessione. Nella sentenza, infatti, si rileva che: “essendo la legge americana a determinare la validità, l’interpretazione, e gli effetti del trust, … il trust in questione va riconosciuto come tale nell’ordinamento italiano, ex art. 11 ss. della convenzione, anche al cospetto di una successione regolata in generale dalla legge sostanziale italiana”. In altre parole, il trust testamentario in oggetto è pienamente efficace, pur avendo settlor, beneficiari, ed oggetto italiani, e pur essendo destinato ad esplicare effetti per lo più nel nostro ordinamento. Ciò in quanto, tale trust è stato ritenuto conforme a quello coperto dalla Convenzione e, dunque, il suo riconoscimento è parso al giudice obbligatorio. Il tribunale ha altresì puntualizzato che detto trust, per quanto pienamente efficace, non può violare in Italia in principi posti dall’ordinamento a tutela dei legittimari ed ha, dunque, indicato nell’azione di riduzione la più idonea a garantire il soggetto portatore di un interesse di tal fatta.
La sentenza, della quale si sono tracciate le linee essenziali in quest’ultima parte di riflessione, dimostra, dunque, che il giudice adito si è sentito obbligato a riconoscere, a norma della Convenzione dell’Aja, al trust interamente italiano la stessa efficacia – sottoposta, per altro, agli stessi limiti – che avrebbe riconosciuto ad un trust caratterizzato da elementi di estraneità rispetto al nostro ordinamento. Ciò è in uno col dire che la Convenzione non distingue il trust interno dall’internazionale e questa – per tutto quanto detto – pare, a chi scrive, la soluzione ermeneutica più condivisibile.

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