(in La Cartolarizzazione dei crediti in Italia. Commentario alla l. 130/1999, a cura di R. Pardolesi, collana dei “Quaderni di Giurisprudenza commerciale”, Giuffrè, 1999)

FRANCESCO DI CIOMMO

SOMMARIO: 1.1. Il soggetto cessionario dei crediti. — 1.2. Lo Special Purpose Vehicle (issuer). — 1.3. I tre modelli: Pass-through, Asset-Backed Bond, Pay-through. — 1.4. La scelta italiana. — 1.5. La c.d. società per la cartolarizzazione dei crediti. — 1.6. La società emittente diversa dalla società cessionaria. — 1.7. I rapporti instaurati dalla c.d. società per la cartolarizzazione. — 1.8. L’attività svolta dalle c.d. società per la cartolarizzazione. — 2.1. La separazione patrimoniale in capo alla cessionaria. — 2.2 Le azioni creditorie sul patrimonio cartolarizzato. — 2.3. La separazione patrimoniale nel d.lgs. 58/98. — 2.4. La pseudoseparazione nel patrimonio della fiduciaria. — 2.5 Il trust come strumento di segregazione. — 2.6. Operatività del trust nell’ordinamento italiano.

1.1. (Il soggetto cessionario dei crediti). Negli ultimi vent’anni si è osservato, almeno nei sistemi economici più evoluti, un costante aumento del numero dei soggetti direttamente coinvolti in operazioni finanziarie. Tale fenomeno è stato accompagnato da un notevole sviluppo qualitativo e quantitativo – forse, per le proporzioni assunte, inatteso – dei mercati mobiliari. Le due vicende non sono scindibili; né tantomeno è possibile parlare di un’influenza unidirezionale esercitata dalla prima sulla seconda, o viceversa. La proliferazione degli operatori ed il parallelo e contemporaneo afflusso di capitali nei mercati mobiliari di tutto il mondo sono, entrambi, sintomi evidenti di una congiuntura economica che ha modificato abitudini e esigenze. Tale evoluzione è stata alimentata da diversi fattori innovativi che hanno interessato prodotti, processi e figure professionali. Ciò ha contribuito a far crescere la cultura finanziaria, anche attraverso la creazione di strumenti sempre più sofisticati e funzionali (dai meccanismi di indicizzazione finanziaria e valutaria ai contratti swap, dalle options ai futures).
Accanto ai nuovi strumenti, si è col tempo radicata una sensibilità che ha mirato a svecchiare i processi finanziari, al fine di realizzare, con i prodotti esistenti, nuovi assetti atti a soddisfare esigenze sempre più raffinate e particolari. Tanto da non parere azzardato sostenere che, negli ultimi anni, in presenza di una sostanziale stabilizzazione dei prodotti disponibili, sia proprio l’innovazione di processo (che investe l’organizzazione dei mercati e dei circuiti di produzione dei servizi finanziari) ad avere assunto il ruolo trainante dello sviluppo finanziario .
Tra le tecniche finanziarie più innovative degli ultimi tempi va annoverata quell’operazione di mobilizzazione (c.d. cartolarizzazione, ovvero titolarizzazione) delle attività di bilancio (ovvero, più semplicemente, dei crediti) denominata, nel mondo anglosassone, dove ha trovato le prime applicazioni pratiche, securitisation . E’ possibile distinguere tre forme di securitisation, in corrispondenza di tre distinte attività: a) l’emissione di titoli che possono essere considerati a tutti gli effetti sostitutivi di prestiti bancari; b) l’attività di vendita e di scambio di prestiti bancari; c) l’emissione di titoli a fronte di prestiti cartolarizzati (c.d. Asset-Backed Securities) .
L’ABS, oggetto della nostra riflessione, è il risultato di un’innovazione di processo. Infatti, senza creare nuovi strumenti operativi, attraverso il funzionale collegamento di soggetti con propria personalità giuridica (c.d originator e Special Purpose Vehicle), si realizza una situazione nella quale, a fronte di un coacervo di attivi ceduti – che diventano patrimonio separato rispetto a quello, tanto del cedente, come sarebbe prevedibile, quanto, in qualche modo, e qui è la peculiarità, del cessionario –, sorgono diritti rappresentati da titoli che vengono compravenduti nei mercati mobiliari . In altre parole, pur senza utilizzare alcuno strumento finanziario sconosciuto, si raggiunge un risultato nuovo attraverso uno studio di processo che, nell’organizzazione dell’operazione in questione, coinvolge diversi soggetti, tra i quali attenzione particolare merita il cessionario del portafoglio di attività cedute.
In seguito all’ampia utilizzazione che la cartolarizzazione dei crediti ha avuto nei sistemi dove da circa quindici anni è conosciuta e praticata, si sono sviluppati diversi modelli di ABS (v. in proposito il Cap. I), ma la struttura di base dell’operazione è rimasta caratteristica comune a tutte le varianti. Essa prevede l’esistenza di un soggetto (c.d. originator) interessato ad aggregare tutti o parte dei propri flussi di cassa derivanti da impieghi lato sensu creditizi, al fine di creare titoli rappresentativi del portafoglio così formato che vengono collocati sul mercato mobiliare; e di un soggetto (c.d. Special Purpose Vehicle, anche detto SPV) che funge – nel sistema scelto dal nostro legislatore – da primo cessionario dei crediti che l’originator dismette. Tale cessionario, per finanziare il suo acquisto, emette titoli rappresentativi dell’operazione e li vende direttamente sul mercato, ovvero ad una investment bank che ne curerà la collocazione diffusa .
Il cessionario interpone la propria personalità giuridica e la propria autonomia patrimoniale tra gli investitori, che acquistano i titoli rappresentativi dei crediti, e colui che i crediti ha ceduto, in modo tale che quest’ultimo non possa essere chiamato a rispondere delle eventuali inadempienze dei debitori ceduti (in quanto la cessione normalmente avviene pro soluto), e che l’eventuale dissesto finanziario dello stesso non si ripercuota sugli investitori, impedendo a questi ultimi di soddisfare le proprie aspettative, una volta che i debitori abbiano adempiuto alle loro obbligazioni.
La ragione principale per cui lo SPV assume un ruolo fondamentale, in un’operazione di cartolarizzazione dei crediti, sta dunque nel fatto che esso consente il concreto distacco dei crediti ceduti dal bilancio del cedente e, contemporaneamente, pone gli investitori al riparo dal rischio imprenditoriale connaturato all’attività dello stesso. In altre parole, grazie al trasferimento dei crediti dall’originator al cessionario, su chi acquista i titoli emessi da quest’ultimo grava solo il rischio insito in un’operazione che ha ad oggetto crediti – in quanto questi, per definizione, possono andare insoluti – e non anche il pericolo dell’eventuale dissesto del cedente. Ciò sempre che il cessionario non svolga, parallelamente alla sua attività tipica, altre attività i cui rischi imprenditoriali finirebbero, altrimenti, per gravare sul patrimonio cartolarizzato e, dunque, indirettamente sugli investitori. Il legislatore italiano ha inteso scongiurare quest’ultimo pericolo, non solo impedendo alla società cessionaria di svolgere attività diverse da quella consistente nell’acquisto e nella cartolarizzazione dei crediti, bensì prevedendo anche che «i crediti relativi a ciascuna operazione costituiscono patrimonio separato a tutti gli effetti da quello della società e da quello relativo alle altre operazioni» . Su tali questioni si tornerà nel corso del capitolo.
Da quanto detto, risulta evidente che al centro di ogni operazione di ABS sta il rapporto trilatero tra cedente, cessionario e investitori; rapporto che, in ambiente angloamericano, può assumere diverse forme (Pass-through, Asset-Backed Bond, Pay-through), tra le quali il legislatore italiano pare averne preferita una, come tra breve si vedrà.

1.2. (Lo Special Purpose Vehicle (issuer)). Lo Special Purpose Vehicle è – come anticipato – il veicolo finanziario utilizzato per realizzare la concreta separazione patrimoniale tra attività cedute e patrimonio del cedente. Esso rappresenta un serbatoio nel quale il soggetto che cede le proprie attività patrimoniali versa il ceduto, al fine di renderlo inattaccabile da parte dei propri creditori futuri e indipendente rispetto al suo eventuale dissesto .
Lo SPV assume, dunque, una funzione di garanzia per gli investitori che, in virtù della separazione dei crediti cartolarizzati dal patrimonio del cedente, non devono esprimere la loro fiducia sul complesso delle attività di quest’ultimo, in quanto restano – come detto – esposti esclusivamente al rischio correlato al portafoglio di crediti selezionato. Il ruolo dello SPV, nella sua duplice veste di cessionario del portafoglio crediti e di emittente dei titoli garantiti dal portafoglio medesimo, consiste essenzialmente nel permettere la separazione di questo da ogni altro patrimonio. Tale separazione rende il portafoglio cartolarizzato insensibile alle vicende economiche del cedente e risulta, perciò, necessaria al fine di infondere fiducia e catturare l’attenzione degli investitori.
Perché sussistano i presupposti necessari per la realizzazione della funzione tipica dello SPV, esso, in linea di principio, non deve svolgere altre attività rispetto a quella di acquisto degli attivi destinati alla mobilizzazione. Non può, dunque, effettuare investimenti, né acquistare pacchetti di crediti destinati a confondersi tra loro.
Nel modello angloamericano di securitisation, l’attività del cessionario può essere svolta attraverso la costituzione di un trust ovvero attraverso una special purpose company . Nel primo caso, il cedente trasferisce allo SPV, che agisce in qualità di trustee, il portafoglio di attività selezionato, il quale è, dunque, destinato a costituire il trust fund ed a garantire il soddisfacimento delle pretese di cui si faranno portatori gli acquirenti dei titoli rappresentativi di dette attività. Sui vantaggi evenienti dall’utilizzazione di un trust nel corso di un’operazione di securitisation, ci si intratterrà oltre nel corso di questo capitolo. Necessita, invece, tornare brevemente sulla seconda delle due possibilità poc’anzi prospettate. L’attività di veicolo finanziario dei crediti ceduti può essere svolta da una società che risulta prima cessionaria di detti crediti e che provvede a cartolarizzarne il valore al fine di collocarli sul mercato. Questa sembra la strada scelta dal legislatore italiano, ma ciò non esclude che – come meglio si vedrà più avanti – anche l’istituto del trust possa essere utilizzato in Italia per realizzare operazioni di cartolarizzazione.
Tra il tipico SPV e la c.d. «società per la cartolarizzazione dei crediti», prevista dal nostro legislatore, sussistono notevoli differenze, sia formali che sostanziali. A fini esemplificativi, se ne anticipa una: mentre il primo è normalmente creato dallo stesso originator – o da altri soggetti da questo incaricati – per svolgere la singola operazione di cartolarizzazione, ed ha, dunque, un’esistenza legata alla durata di questa, la seconda pare destinata a svolgere un’attività imprenditoriale autonoma, nell’ambito della quale può gestire contemporaneamente la cartolarizzazione di più portafogli di crediti, finanche, sembra, per originators diversi, nonché investire – nei limiti indicati dalla legge all’art. 2, comma 3, lett. e) – quanto ricevuto dai debitori ceduti.
Lo SPV è, dunque, – come è stato correttamente rilevato – una costruzione a montaggio meramente strumentale e temporaneo, normalmente controllata dagli stessi arrangers che organizzano l’operazione di cartolarizzazione su incarico o mandato dell’originator . Esso, perciò, è inquadrabile nell’ambito di quel complesso fenomeno di deintermediazione finanziaria, da alcuni anni oggetto di dibattito tra gli studiosi del settore. Si parla di deintermediazione riferendosi a quei soggetti, interessati ad operazioni finanziarie, che attraverso il proprio coinvolgimento diretto, evitano – per quanto possono – di rivolgersi agli intermediari, in tal modo riducendo le dispersioni informative e, il più delle volte, i costi, nonché guadagnando una maggiore libertà nel determinare tutte le varianti dell’operazione.
Lo SPV, qualunque veste giuridica assuma, per la funzione peculiare che è chiamato a svolgere e per le caratteristiche strutturali connaturate al suo ruolo, non può in alcun modo essere considerato un intermediario finanziario, sebbene la genesi di tale figura possa essere ricondotta a quel fenomeno di proliferazione di soggetti coinvolti in operazioni finanziarie al quale si faceva riferimento in apertura di capitolo. Esso, conviene ripeterlo, è un mero veicolo finanziario atto a realizzare la separazione patrimoniale tra attività del cedente e portafoglio di crediti ceduto.
Si può, dunque, ritenere che, pur applicandosi per espressa previsione di legge, ai soggetti che si occupano di cartolarizzazione in Italia, una disciplina analoga a quella predisposta per l’intermediazione finanziaria – nelle parti del Testo unico bancario richiamate espressamente all’art. 3 della legge in commento –, non si deve cadere nell’errore di considerare tali soggetti veri e propri intermediari, onde evitare di ritenere sic et simpliciter operanti i principi che regolano l’attività di questi ultimi. Si farà riferimento a tali principi soltanto quando le fattispecie concrete, di volta in volta prese in considerazione, presenteranno effettive analogie rispetto alle vicende tipiche dell’intermediazione finanziaria, stricto sensu intesa.

1.3. (I tre modelli: Pass-through, Asset-Backed Bond, Pay-through) La struttura di un ABS – che, per esigenze descrittive, è stata presentata in apertura di capitolo, in termini del tutto generali, come univoca – nella realtà pratica conosce diversificazioni dalle quali non si può prescindere se si vuole cogliere a pieno la portata dell’attività svolta ed il ruolo, nelle diverse situazioni, assunto dallo SPV, nonché il senso della scelta operata dal legislatore italiano.
E’ possibile distinguere essenzialmente tre strutture fondamentali di ABS: la c.d. pass-through, la c.d. pay-through, e la c.d. asset-backed bond . Le differenze tra i tre modelli ruotano attorno: 1) alla natura del diritto cartolarizzato (qualificabile come diritto di credito nei confronti del cessionario, ovvero come diritto di proprietà su quote del portafoglio a suo tempo acquistato dal cessionario); 2) alla consequenziale titolarità degli attivi smobilizzati (ravvisabile in capo alla cessionaria, ovvero direttamente in capo agli investitori); 3) alle modalità di pagamento previste per soddisfare i portatori dei titoli rappresentativi (subordinate al soddisfacimento delle aspettative creditorie del cessionario rispetto ai crediti cartolarizzati, ovvero – almeno formalmente – indipendenti dal comportamento dei debitori ceduti).
Procedendo con ordine, si può riassuntivamente ricondurre la struttura denominata pass-through ad un’operazione di trust . In essa, l’originator trasferisce il portafoglio di attivi, da esso selezionati, ad uno SPV, che, in qualità di trustee (ovvero fiduciario), funge da depositante e da gestore dei crediti di cui si è fatto cessionario. Nasce così, dall’accordo intercorrente tra originator e SPV (c.d. Trust Agreement, ovvero Pooling and Servicing Agreement), un grantor trust. In base a tale accordo, lo SPV-trustee acquisisce, per conto del trust, il portafoglio di attività che l’originator cede e si impegna ad emettere titoli rappresentativi del trust fund, così da trasferire la proprietà del portafoglio agli acquirenti dei titoli . Prima che la sottoscrizione dei titoli da parte degli investitori avvenga, nel mondo anglosassone – nel quale il trust da centinaia di anni è considerato pietra angolare del sistema giuridico –, in capo allo SPV è ravvisabile una titolarità funzionalizzata del portafoglio cartolarizzato. Nel momento in cui i titoli vengono trasferiti dallo SPV agli investitori, questi ultimi acquistano la piena proprietà del portafoglio oggetto di cartolarizzazione. I certificati pass-throughs non vengono, infatti, considerati come obbligazioni dell’originator e – dopo la vendita – non compaiono nel bilancio dello stesso .
Il modello di ABS denominato pay-through si differenzia dal pass-through, in quanto gli attivi ceduti non diventano mai proprietà degli investitori e restano nella titolarità dello SPV che ha emesso i titoli rappresentativi . Anche utilizzando tale struttura ci si può servire di un trust per segregare il portafoglio ceduto. In tal caso, però, il cessionario-trustee emittente non si impegna a trasferire la proprietà del trust fund agli investitori, bensì riconosce in capo a questi un diritto equitativo nei suoi confronti. Essi infatti, attraverso la sottoscrizione dei titoli, assumono la qualifica di beneficiari del trust istituito. La proprietà dei crediti ceduti resta, dunque, in capo allo SPV ed in capo agli investitori-beneficiari del trust istituito si può rinvenire soltanto un’aspettativa di titolarità che, in termini civilistici, sarebbe più corretto – sebbene, per certi versi, comunque approssimativo – qualificare come diritto di credito nei confronti dello stesso trustee. Qualora si volesse utilizzare il trust per realizzare operazioni di ABS in Italia, la situazione dovrebbe essere qualificata giuridicamente nei termini, parzialmente diversi da quelli qui esposti, di cui si dirà infra .
La terza struttura possibile per realizzare operazioni di ABS è la c.d. asset-backed structure. Anche in questo caso, come per la c.d. pay-through, i titoli, nei quali viene cartolarizzato il portafoglio di attivi ceduti, non conferiscono la proprietà (come, invece, nel caso di pass-through), bensì un diritto di credito nei confronti dello SPV emittente. Un asset-backed bond rappresenta, infatti, un’obbligazione debitoria dell’emittente, ma – e in ciò sta la sua peculiarità – circoscritta al solo portafoglio posto a garanzia di tale credito, cosicché è esclusa ogni pretesa ulteriore sul patrimonio dell’emittente. In tale contesto, lo SPV può assumere la forma di una società (di capitali ovvero di persone) o di un owner trust, ed in quest’ultimo caso la vicenda ricorda la struttura pass-through, con la differenza determinante che i titoli negoziati sul mercato non incorporano diritti pro quota di proprietà sugli attivi cartolarizzati, bensì – come nel caso di pay-through – diritti di credito verso l’emittente. Nella asset-backed structure la proprietà degli attivi è, dunque, dell’emittente che – a differenza di quanto avviene in un’operazione di pay- o di pass-through – trasferisce agli investitori, periodicamente, ovvero in un’unica soluzione, somme indipendenti rispetto agli interessi generati dai prestiti.

1.4. (La scelta italiana). Come risulta evidente dalla descrizione delle tre strutture tipiche di ABS – e come, peraltro, già anticipato – in ogni operazione di cartolarizzazione il soggetto cessionario-emittente svolge una funzione determinante, in quanto dalla forma giuridica che esso assume (società di persone, di capitali, ovvero trustee), dagli strumenti che usa (ad esempio, il trust), e dal rapporto che instaura con gli investitori (cessione del diritto di proprietà, ovvero obbligo di corrispondere una certa somma ad una certa data) dipende la qualificazione tecnico-giuridico-finanziaria dell’operazione stessa e, in molti casi, la sua riuscita. In altre parole, e semplificando, se il cessionario-emittente resta proprietario degli attivi anche dopo la collocazione sul mercato e la vendita dei titoli, allora l’operazione verrà qualificata come pay-through o come asset-backet bonds (ma non come pass-through), a seconda del tipo di obbligazione che esso assume nei confronti di chi possiede i titoli: se indipendente rispetto agli interessi generati dai prestiti cartolarizzati, si avrà pay-through, altrimenti, asset-backed bonds. La scelta tra i tre modelli – ove consentita – è condizionata da valutazioni che investono la qualità degli attivi cartolarizzati ed il rating di cui il portafoglio gode, oltre che le condizioni generali di mercato e, dunque, la maggiore o minore disponibilità degli investitori a rischiare. Tali valutazioni tecniche vengono normalmente compiute dall’originator, il quale – come pare del tutto evidente – quanta più libertà di scelta detiene, tanto meglio può operare.
Il legislatore italiano ha inteso imporre modalità operative al cessionario-emittente che rendono impossibile – almeno di non voler realizzare un’operazione atipica di cartolarizzazione servendosi dell’istituto del trust – il ricorso al modello denominato pass-through, così riducendo la libertà di scelta dei soggetti interessati. Ciò in quanto, all’art. 3, comma 2, della legge in commento, si prevede testualmente che «su ciascun patrimonio non sono ammesse azioni da parte di creditori diversi dai portatori dei titoli emessi per finanziare l’acquisto dei crediti stessi» e, dunque, si attribuisce ai titolari dei valori mobiliari emessi dallo SPV la qualifica di creditori e non di proprietari pro quota del portafoglio cartolarizzato.
Nella norma riportata vengono in rilievo alcuni elementi di riflessione, sulla base dei quali è possibile concludere, in maniera conforme a quanto si è fatto, per l’esclusione legale del modello pay through operata in Italia. Il più importante riguarda il concetto di creditori, all’interno del quale pare venire compreso quello di investitori. In altre parole, gli investitori acquisirebbero nei confronti del cessionario emittente (in Italia non può che essere una società, v. il paragrafo 1.5.) un mero diritto di credito e giammai un vero diritto di proprietà. L’interpretazione proposta trova conferma nella semplice lettura della seconda parte della stessa norma, nella quale si afferma che i titoli vengono emessi per finanziare l’operazione di acquisto dei crediti destinati alla cartolarizzazione. Tale emissione può, dunque, essere considerata un’operazione di ricorso al credito da parte dello SPV italiano, che rimane per tutto il corso dell’operazione l’unico proprietario del portafoglio ceduto.
Provando a costruire diversamente da come si è, fin qui, fatto la situazione disegnata dal legislatore all’art. 3, si potrebbe pensare che lo SPV in Italia debba svolgere funzione di mandatario, in quanto esso acquista gli attivi ceduti dall’originator per conto degli investitori che hanno – preventivamente, contemporaneamente, ovvero anche successivamente – fornito i capitali necessari. Tale ricostruzione non convince, in quanto – come detto – i proprietari dei valori mobiliari emessi dallo SPV sono esclusivamente titolari di un diritto di credito nei suoi confronti, mentre – in tema di mandato avente ad oggetto beni mobili o crediti – il combinato disposto degli artt. 1705, comma 2°, 1706, comma 1°, e 1707 c.c., ha indotto la dottrina e la giurisprudenza prevalenti a ritenere che il mandante divenga proprietario dei beni acquistati per suo conto nel momento stesso in cui il mandatario li acquista dal terzo in nome proprio .
Alla luce di quanto fin qui detto, pare, dunque, che il modello di cartolarizzazione al quale il legislatore italiano ha pensato preveda l’esistenza di una società che, sola o con l’ausilio di un altro soggetto, mette sul mercato titoli rappresentativi di un credito nei suoi confronti e, attraverso tale operazione, acquisisce i capitali necessari per acquistare i crediti che l’originator cede, dalla riscossione dei quali trarrà quanto necessario per soddisfare le aspettative degli investitori. Tale vicenda ricorda quelle tipiche del mercato obbligazionario, al quale si fa spesso ricorso proprio per finanziare investimenti .
Il vantaggio, derivante dall’aver regolato per legge l’emissione di tali titoli pseudo-obbligazionari, consiste nella previsione di un diverso regime delle garanzie rispetto a quello, piuttosto astringente, di cui all’art. 2410 c.c. . Erano proprio i limiti posti all’emissione di titoli obbligazionari ad impedire in Italia, prima dell’emanazione della legge 130/99, che un soggetto cessionario di crediti, senza avere un patrimonio ulteriore rispetto al portafoglio da acquistare (ovvero acquistato), emettesse valori mobiliari . Ciò in quanto l’art. 2410 c.c. – richiamato dall’art. 11 della legge bancaria e dalla normazione secondaria emanata dal CICR (in particolare, v. la delibera CICR del 3 marzo 1994, che estende i limiti previsti per le emissioni obbligazionarie anche ai valori mobiliari diversi dalle obbligazioni) –, nonché la restante normativa in materia, fanno sempre e comunque riferimento al capitale ed alle riserve dell’emittente come parametro per stabilire l’entità dell’emissione consentita . L’ammontare consentito dell’emissione obbligazionaria e/o di valori diversi dalle obbligazioni è, dunque, sempre parametrato a criteri di adeguatezza riferiti al patrimonio del soggetto emittente .
Trattasi di una cautela tecnica stabilita in applicazione del principio fondamentale fissato dall’art. 2740 c.c., in forza del quale il debitore risponde delle proprie obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri o, in altri termini, del principio che vuole che la garanzia del creditore sia costituita dal patrimonio del debitore (c.d garanzia generica). Cosicché, per l’ipotesi di raccolta di risparmio tra il pubblico, mediante emissione di obbligazioni e/o di altri valori mobiliari, il legislatore si preoccupa che questi impegni verso gli investitori non eccedano certi limiti, fissati con riferimento al patrimonio del soggetto emittente. La società interessata può, dunque, emettere obbligazioni per una somma non eccedente il capitale versato ed esistente secondo l’ultimo bilancio approvato (criterio c.d. della reale esistenza del capitale sociale); tale somma può essere superata se le obbligazioni sono garantite da ipoteca, ovvero da titoli nominativi emessi e garantiti dallo Stato o da c.d. crediti di annualità e sovvenzioni, sempre a carico dello stato Stesso o di enti pubblici . Inoltre, quando le obbligazioni emesse, tenuto conto degli aumenti di capitale eventualmente deliberati, superano il limite dei dieci miliardi di lire (ovvero se, a più riprese, lo superino complessivamente nell’arco di dodici mesi) – soglia sempre di molto superata nel caso di cartolarizzazione – l’operazione deve essere previamente comunicata alla Banca d’Italia, secondo quanto disposto dall’art. 129 del Testo unico in materia bancaria e creditizia. Tale ultima disposizione, contrariamente a quanto detto per l’art. 2410 c.c., trova applicazione anche in materia di cartolarizzazione dei crediti, in forza dell’espresso richiamo contenuto nell’art. 5 della legge in commento.
In definitiva, attraverso il modello tracciato nella recente normativa italiana, si consente alla società cessionaria di svolgere – parzialmente svincolata dagli obblighi e dalle garanzie imposte normalmente alle operazioni obbligazionarie – sia l’attività di acquisto degli attivi dell’originator che quella di emissione di titoli, mentre fino ad ora chi avesse voluto realizzare operazioni di cartolarizzazione in Italia avrebbe dovuto, per aggirare i limiti predetti, affidarsi – quanto meno per l’emissione dei valori mobiliari e per la conseguente raccolta dei fondi – ad un soggetto estero.

1.5. (La c.d. società per la cartolarizzazione dei crediti). La c.d. «società per la cartolarizzazione dei crediti» è il veicolo finanziario che il legislatore italiano ha creato al fine di consentire nel nostro ordinamento operazioni di securitisation. Essa, soltanto per approssimazione, può essere considerata una specie del genus Special Purpose Vehicles, in quanto dal modello classico di SPV, come meglio si vedrà, si differenzia notevolmente.
La recente normativa prevede i requisiti e le modalità operative di tale società nel nostro ordinamento ed in particolar modo, seppure implicitamente, dispone che: 1) il tipo societario prescelto può essere uno qualunque tra quelli di capitale ; 2) il capitale sociale può essere quello minimo previsto dalla legge per il tipo prescelto, indipendentemente dall’ammontare dei titoli emessi ; 3) alle predette società si applica l’art. 106, comma 4, lett. b) del Testo unico bancario, che consente al Ministro del tesoro, «per intermediari finanziari che svolgono determinati tipi di attività”», di «vincolare» la scelta della forma giuridica, consentire l’assunzione di nuove forme giuridiche e stabilire diversi requisiti patrimoniali . Sulle problematiche suscitate da tali previsioni necessita soffermarsi.
L’aver previsto espressamente l’esistenza di una società cessionaria (degli attivi ceduti dall’originator) significa – secondo parte della dottrina – aver voluto evitare l’alternativa del c.d. fondo comune di crediti, per la quale hanno invece optato i legislatori francese e spagnolo . Tale scelta, sempre a detta della stessa dottrina, si rivela corretta ove si rifletta sui costi di gestione che caratterizzano il fondo comune, e che sono invece estranei ai veicoli tipici utilizzati in operazioni di securitisation, i quali non devono avere strutture, oneri, o responsabilità di gestione.
In realtà, si può ritenere che il nostro legislatore abbia consentito di realizzare operazioni di cartolarizzazione anche attraverso l’utilizzazione di fondi comuni d’investimento. Ciò in quanto, l’art. 30 del Testo unico in materia finanziaria (d.lgsl. 58/98) – da parte sua – prevede che il regolamento dei fondi, nell’indicare i beni oggetto di investimento, possa riferirsi anche a crediti, ed inoltre, l’art. 7, comma 1, lett. b), della legge in commento, dispone l’applicazione della disciplina sulla cartolarizzione anche in caso di cessioni a favore di fondi comuni d’investimento aventi ad oggetto crediti.
Tornando alla società cessionaria, va sottolineato come la libertà di scelta, circa il tipo societario da adottare per svolgere attività di cartolarizzazione, costituisca prova che i titoli emessi – in qualche modo rappresentativi dei crediti dalla stessa acquistati o da acquistare – non siano obbligazionari, in quanto, se lo fossero, non potrebbero certo venire emessi da società a responsabilità limitata . Essi vanno, dunque, considerati titoli atipici – anche in virtù di quanto detto circa la non assogettabilità degli stessi alle norme che regolano le emissioni obbligazionarie –, in particolare, pseudo-obbligazioni ad esigibilità limitata (limited recourse), poiché circoscritta dal portafoglio dei crediti posto a garanzia dei titoli, essendo – in una tipica vicenda di ABS – esclusa qualsiasi pretesa ulteriore sul patrimonio dell’emittente .
L’art. 3 presuppone che la c.d. società per la cartolarizzazione dei crediti sia dotata di una sua autonomia imprenditoriale e prevede espressamente che questa abbia «per oggetto esclusivo la realizzazione di una o più operazioni di cartolarizzazione». La società cessionaria dei crediti, dunque, deve perseguire un proprio scopo imprenditoriale, il quale non può che essere, per definizione, la produzione di utili, in quanto deve essere qualificabile come scopo di lucro, ai sensi degli artt. 2247 e 2082 c.c. Ciò alla stregua di una società di factoring o di un qualsiasi intermediario finanziario non bancario. Tale assimilazione trova origine nell’indirizzo, a suo tempo espresso dalla Banca d’Italia, in virtù del quale, per le cartolarizzazioni con cedente (originator) italiano, la cessionaria doveva possedere i requisiti previsti per una società di factoring dalla legge 52/91, e quindi anche i requisiti dell’art. 106 del Testo unico bancario, che infatti l’art. 3 della legge in commento richiama come applicabile, seppure escludendone alcune parti. In realtà, se detta assimilazione aveva un senso compiuto in una situazione di vuoto legislativo, non pare che lo abbia in presenza di una legge italiana regolatrice . Anche per tale ragione, come anticipato, non pare corretto considerare le c.d. società per la cartolarizzazione come fossero intermediari finanziari ed applicare ad esse i principi che si ritiene regolino l’attività di intermediazione.
2Mentre, come detto, i soggetti che svolgono attività di cartolarizzazione dei crediti in Italia – in quanto società – dovranno svolgere un’attività imprenditoriale ed avere uno scopo di lucro, lo SPV classico, per definizione, non ha alcuno scopo di produzione di utili, e serve soltanto ad isolare un portafoglio crediti al fine di segregarlo nei termini già descritti. Lo SPV non è neppure una societas unius negotii, in quanto quest’ultima è sempre una società costituita allo scopo di produrre l’utile derivante dallo specifico affare e distribuirlo ai soci.
La difficoltà esistente nel realizzare operazioni tradizionali di securitisation attraverso un veicolo che, invece di essere un fondo per la segregazione dei crediti ceduti, è un vero e proprio soggetto giuridico dotato di propria autonomia imprenditoriale e patrimoniale, impedì operazioni di cartolarizzazione in Italia anche in seguito all’emanazione della legge 21 febbraio 1991, n. 52, che ha innovato la disciplina relativa alla cessione dei crediti di impresa. Tale normativa prevede che cessionario sia «una società o un ente, pubblico o privato, avente personalità giuridica, sempre che, in ogni caso l’oggetto sociale preveda anche l’acquisto di crediti di impresa ed il cui capitale sociale o il fondo di dotazione sia non inferiore a dieci volte il capitale minimo previsto per le società per azioni». I problemi suscitati dalla disposizione citata riguardano in particolare l’ingente capitalizzazione richiesta e la natura stessa della società in questione, che può svolgere molteplici attività, tra le quali – ove previsto dall’oggetto sociale – anche quella di cessionaria di crediti di impresa. Non era logico pensare che tale società avrebbe svolto il ruolo tipico dello SPV (non era questo, del resto, il risultato perseguito) ed infatti così non fu. Non nacquero, in altre parole, soggetti destinati ad acquistare e gestire crediti e la legge servì soltanto per consentire alle imprese di trasferirsi crediti godendo di un regime agevolato.
La situazione creata dalla recente legge italiana sulla cartolarizzazione dei crediti pare diversa. La società cessionaria non è sottoposta a speciali obblighi di capitalizzazione – se non quelli minimi previsti per le società di capitali – e non può svolgere altra attività, se non quella di cartolarizzazione. Prova ne sia il fatto che l’art. 3, comma 3, prevede l’inapplicabilità a dette società del requisito di capitalizzazione previsto dall’art. 106, comma 3, lettera c) del Testo unico bancario e che, a sua volta, l’art. 5 escluda l’applicazione dell’art. 11, comma 2, dello stesso Testo unico.
La società a cui ha pensato il nostro legislatore è, dunque, cosa profondamente diversa, non solo rispetto al modello di cui alla legge 52/91, ma – nella forma (è un soggetto giuridico dotato di propria capacità imprenditoriale e quindi indipendente rispetto all’originator) e nella sostanza (può, ad esempio, «reinvestire in altre attività finanziarie i fondi derivanti dalla gestione dei crediti ceduti, non immediatamente impiegati per il soddisfacimento dei diritti incorporati nei titoli», nonché «realizzare eventuali operazioni finanziarie accessorie» per il buon fine dell’intera operazione) – anche rispetto all’asettico veicolo finanziario rappresentato dal tradizionale fondo cessionario-emittente, c.d. SPV. Tale differenza risulta evidente anche ove si consideri che quest’ultimo è spesso creato ad hoc, dall’originator o dai suoi incaricati, per svolgere la singola operazione di cartolarizzazione e si estingue con la stessa, mentre la società di cui all’art. 3 della legge italiana pare essere un soggetto dotato di vita autonoma, una figura professionale specializzata nella cartolarizzazione, destinata a soddisfare principalmente le esigenze dei suoi clienti diretti, che sono proprio gli originators.
La scelta italiana, è stata criticata, in quanto è parso che lo SPV tradizionale, con il suo ruolo tipicamente strumentale, si sarebbe potuto facilmente inquadrare nel nostro ordinamento, il quale, oramai, prevede non soltanto il gruppo bancario (artt. 60-69 del Testo unico bancario), ma anche il gruppo di intermediazione finanziaria (artt. 11 e 12 del Testo unico dell’intermediazione finanziaria); concetto quest’ultimo nel quale sarebbe riconducibile il soggetto complesso risultante dai rapporti che si instaurano tra cedente, cessionario e collegati.

1.6. (La società emittente diversa dalla società cessionaria). La legge 130/99 prevede la possibilità che ad emettere i titoli, garantiti dagli attivi ceduti dall’originator alla società cessionaria, sia una “società” diversa da quest’ultima. Nel testo, infatti, accanto ad ogni riferimento fatto alla cessionaria, si trovano espressioni che richiamano «la società emittente titoli se diversa» . La natura, la funzione e l’attività di tale entità emittente non vengono, dalla legge, meglio precisate. La mancanza di indicazioni al riguardo rischia di risultare fuorviante e di generare risultati non desiderati dal legislatore; si rende, perciò, necessario lo sforzo ricostruttivo dell’interprete, al quale si chiede di individuare il senso pregnante dell’espressione «emittente diversa dalla cessionaria».
La soluzione ermeneutica più immediata fa leva sulla facoltà, riconosciuta in capo alla cessionaria, di cedere i crediti acquistati, e si sostanzia, dunque, nel ritenere che la c.d. emittente diversa dalla cessionaria, altro non sia che una seconda cessionaria. Tale interpretazione trova conferma nel disposto dell’art. 2, 3° comma, lett. d), dove espressamente si consente alla società cessionaria, in presenza di condizioni predeterminate e a vantaggio dei portatori dei titoli, di cedere i crediti acquistati. La legge non vieta che i crediti vengano, anche più di una volta, trasferiti prima della cartolarizzazione e, di conseguenza, che a svolgere l’operazione di emissione dei titoli sia la società ennesima cessionaria.
Ai sensi dell’art. 3, 1° comma, dunque, la seconda (ovvero ennesima) cessionaria deve, come la prima, essere organizzata in forma societaria e avere come oggetto esclusivo la realizzazione di una o più operazioni di cartolarizzazione. Essa, inoltre, deve redigere il prospetto informativo, nel quale dar conto, tra l’altro, – per quanto disposto nell’art. 2, comma 3, lett. i) – dei rapporti di partecipazione, attivi o passivi, che intrattiene con il cedente. Infine, anche in capo all’emittente che non sia stata prima cessionaria, si realizza quella separazione patrimoniale, disposta dall’art. 3, 2° comma, che è sta già presentata come caratteristica fondamentale di ogni operazione di securitisation.
L’interpretazione prospettata, per quanto teoricamente corretta, non pare la sola possibile, né la preferibile e va dunque integrata. Non sembra, infatti, coerente, dal punto di vista sistematico, pensare che con l’espressione «società diversa dalla cessionaria» il legislatore volesse riferirsi all’ulteriore cessionaria, in quanto per quest’ultima – essendo per definizione, appunto, una cessionaria – non sarebbe stato necessario parlare di società diversa. In altre parole, ad ogni cessionaria-emittente si deve applicare la normativa in esame, indipendentemente dalla previsione ulteriore che ricomprende nel campo di applicazione di alcune norme anche quei soggetti che, pur non essendo cessionari dei crediti, emettono titoli da questi garantiti.
Tali soggetti sono, dunque, gli operatori finanziari abilitati a gestire crediti e a mobilizzare patrimoni. La società cessionaria potrebbe, infatti, decidere di versare in un fondo comune d’investimento il portafoglio acquistato, nel qual caso graverebbe sulla società che gestisce detto fondo l’onere di cartolarizzare . La cessionaria potrebbe, altresì, avvalersi del finanziamento di un altro soggetto che – attraverso l’emissione, ad esempio, di bonds – le procuri i capitali necessari a concludere l’operazione di securitisation . Solo in virtù di tali valutazioni, si perviene ad un’interpretazione coerente dell’oscuro dato legislativo ed ha senso parlare di “emittente non cessionario”, in quanto l’operatore finanziario che curerà l’emissione non sarà cessionario dei crediti cartolarizzati.
Comunque sia, la previsione volta a ricomprendere sotto la stessa disciplina prima cessionaria-emittente, emittente non prima cessionaria ed emittente non cessionaria, ha una finalità importante. Essa è volta ad evitare che – attraverso una o più cessioni dei portafogli, ovvero attraverso la scissione del soggetto che, emettendo titoli, procura i capitali necessari per l’operazione e di quello che direttamente acquista i crediti – si aggiri l’applicazione della normativa in commento.

1.7. (I rapporti instaurati dalla c.d. società per la cartolarizzazione). Una certa attenzione merita il tema dei rapporti esistenti tra la società cessionaria dei crediti e gli altri soggetti che entrano in gioco in un’operazione di cartolarizzazione: gli originators, i credit enhancers (prestatori di garanzie che rendono meno rischioso l’investimento per chi acquista i titoli ed in tal modo fanno aumentare il rating attribuito al portafoglio), l’intermediario che cura l’emissione dei titoli e quello che si occupa della riscossione degli stessi (c.d. servicer), ovvero – nel caso in cui la società in questione fosse, oltre che cessionaria, anche emittente – le investiment banks o gli investitori istituzionali interessati all’acquisto dei valori mobiliari. Con ognuno di tali soggetti, la c.d. «società per la cartolarizzazione dei crediti» instaura rapporti destinati a durare per tutta l’operazione, ovvero a concludersi in breve tempo. L’insieme di questi rapporti rappresenta la struttura di qualsiasi operazione di cartolarizzazione.
Il primo soggetto con il quale, normalmente, la c.d. società per la cartolarizzazione entra a far parte è l’originator. La legge in commento prevede che la cessionaria possa gestire anche più portafogli e svolgere contemporaneamente più cartolarizzazioni. E’ dunque possibile che essa abbia rapporti con più originators . Tale situazione, nel modello disegnato dal legislatore italiano – consistente nel far acquistare i crediti ad un soggetto indipendente rispetto al cedente e dotato di sua autonomia giuridica e patrimoniale –, non desta particolari preoccupazioni, sebbene sia stato evidenziato come la gestione di più portafogli comporti una possibilità di confusione che sottopone gli investitori a rischi di insolvenza inaspettati e imprevedibili .
Nel mondo anglosassone le cose stanno diversamente, in quanto – come detto – lo SPV è solo uno strumento finanziario che l’originator crea, e spesso amministra, per separare il portafoglio oggetto della cartolarizzazione dal restante suo patrimonio. L’originator può anche decidere di far gestire ad altri lo SPV, così defilandosi nel corso dell’operazione. Ciò, però, risulta svantaggioso per il cedente, in quanto – specie se esso è una banca –, attraverso la gestione diretta delle attività dello SPV, non solo rimane in contatto con la clientela ceduta (nei confronti della quale, il più delle volte, si impegna a predisporre rendiconti periodici), ma addirittura amplia la sua penetrazione sul mercato, in quanto instaura rapporti con gli investitori, (gran) parte dei quali (probabilmente) gli erano sconosciuti.
Nel sistema italiano, è probabile che le società per la cartolarizzazione, costituitesi al fine di realizzare utili, offrano, come soggetti economici del tutto autonomi, il servizio di securitisation agli originators, i quali – pur di non dover creare appositamente un soggetto destinato ad avere scopo di lucro e, dunque, una complessa situazione patrimoniale (la quale manca completamente negli SPV classici ) – preferiranno rivolgersi a soggetti terzi completamente indipendenti. Tra società per la cartolarizzazione e originator sorgerà un rapporto contrattuale nel quale le due parti cercheranno, come è normale, di ottenere ciascuna il massimo della propria utilità compatibile con l’utilità altrui. In altre parole, la cessionaria indurrà l’originator ad offrire crediti di sicura solvibilità (o almeno con un buon rating), mentre quest’ultimo cercherà di ottenere le condizioni economiche più vantaggiose.
Se le cose funzioneranno nella maniera ora esposta, gli originators rappresenteranno in Italia, per le società cessionarie, nient’altro che clienti, ovvero fornitori, interessati a vendere un prodotto che esse intendono acquistare. Rebus sic stantibus, non verranno in rilievo i problemi sorti nel mondo anglosassone in merito ai rapporti di partecipazione al capitale sociale dei due soggetti. In altre parole, un originator potrà detenere un’ingente parte del capitale della società cessionaria, ovvero anche controllarlo totalmente. Nessun limite in proposito è disposto nella recente legge, che prevede soltanto, all’art. 2, comma 3, lett. i), la menzione obbligatoria dei rapporti di partecipazione tra cedente e cessionaria nel prospetto informativo.
Più delicata potrebbe rivelarsi la situazione quando si parla del rapporto esistente tra società cessionaria e agenzia di rating. In una versione del progetto di legge antecedente a quella approvata, si prevedeva, all’art. 2, comma 1, lett. b), che l’agenzia non dovesse «detenere, direttamente o indirettamente, partecipazioni di controllo, ai sensi dell’art. 2359 del codice civile, nel capitale, oltre che della società cessionaria, dell’emittente titoli, se diverso dalla società cessionaria, del soggetto cedente o di quello incaricato della redazione del programma», né potesse «essere, da questi soggetti, direttamente o indirettamente controllata», e inoltre che, qualora tra tali soggetti i rapporti di partecipazione, pur non dando luogo a situazioni di controllo, fossero superiori alla soglia del venti per cento, ciò dovesse chiaramente risultare dal programma dell’operazione.
Tali previsioni si giustificavano in quanto all’agenzia di rating è affidato un compito molto importante in funzione di un’adeguata tutela degli investitori. La suddetta agenzia valuta la solvibilità dei crediti cartolarizzati e dunque evidenzia la percentuale di rischio collegata ad ogni operazione di securitisation. In base alle valutazioni svolte ed al giudizio espresso dall’agenzia di rating, i titoli verranno collocati ad un certo prezzo e verranno scambiati nel mercato con maggiore o minore facilità. Il rischio, insito nella mancanza di autonomia dell’agenzia di rating rispetto ad uno dei soggetti interessati nell’operazione, consiste nella mancanza di obiettività, e dunque di affidabilità, della sua valutazione. In altre parole, per avvantaggiare, ad esempio, la cessionaria, l’agenzia potrebbe attribuire al portafoglio cartolarizzato un rating più alto del dovuto, così facilitando la vendita dei titoli, ma allo stesso tempo sottoponendo gli investitori a rischi inaspettati e, in definitiva, cedendo a questi ultimi un prodotto diverso da quello promesso, con tutte le conseguenze da valutarsi in sede di risarcimento dei danni per vizi della cosa venduta. E’ importante dunque, per garantire trasparenza all’operazione, che l’originator e la cessionaria instaurino con l’agenzia di rating un rapporto esclusivamente professionale, in grado di garantire l’investitore.
La società per la cartolarizzazione avrà un legittimo interesse ad aumentare il rating del portafoglio crediti ceduti, al fine di attirare l’attenzione degli investitori sui titoli rappresentativi di detto portafoglio. Tale risultato è realizzabile aumentando le garanzie a supporto dell’operazione, e ciò è possibile utilizzando strumenti e patrimoni propri della società emittente (c.d. autogaranzia), ovvero – e tale sistema viene considerato preferibile – attraverso l’intervento di entità terze (c.d. eterogaranzia). Queste ultime, dopo aver valutato le performances (potenziali e reali) del pool di prestiti, la qualità creditizia delle entità coinvolte, le garanzie che già accompagnano l’operazione, la validità della struttura giuridica e la possibilità di eventuali frodi, assorbono – a fronte di un corrispettivo – il rischio di insolvenze per un multiplo dell’incidenza normale degli insoluti. Spetterà alla società emittente – o, nel caso in cui l’intera operazione di securitisation sia gestita da un diverso soggetto (c.d. arranger), a quest’ultimo – effettuare un’analisi costi/benefici, in base alla quale stabilire se, e fino a che punto, convenga dotarsi di ampie garanzie, così incrementando i costi di gestione del portafoglio.
L’eterogaranzia può essere prestata da una duplice tipologia di operatori: compagnie di assicurazione e aziende di credito . Le prime coprono le perdite eventuali dell’operazione di securitisation, a fronte di un premio concordato con il soggetto cessionario-emittente, ed in forza della polizza conclusa. Le seconde (aziende bancarie a rating massimo) garantiscono l’operazione attraverso lettere di credito con cui si dichiarano disponibili a sopportare potenziali perdite. In entrambi i casi, la remunerazione per tale garanzia è corrisposta in relazione al valore della transazione e ai coefficienti di rischiosità calcolati. Essa può essere versata in via anticipata o a scadenze prefissate. Tale seconda soluzione sarà preferita soprattutto da quei soggetti cessionari che non dispongono di capitali immediati.
La legge 130/1999 prevede che la c.d. società cessionaria possa affidarsi, per l’emissione e la gestione dei valori mobiliari garantiti dai crediti ceduti dall’originator, ad un terzo soggetto che presumibilmente sarà un intermediario finanziario specializzato in tali servizi. Nei confronti di questo, la società cessionaria assumerà obblighi che normalmente saranno direttamente proporzionali al valore dei crediti oggetto dell’operazione. Tale proporzione sarà influenzata anche dal rating ottenuto dal portafoglio e dalle condizioni dei mercati mobiliari.
Qualora la società cessionaria gestisca direttamente l’emissione dei valori mobiliari garantiti dai crediti oggetto di securitisation, potrà curarne anche la collocazione sul mercato . L’esperienza angloamericana insegna che, in qualità di acquirenti, si possono presentare, alla c.d. società per la cartolarizzazione, merchant banks, investitori istituzionali o intermediari finanziari. Quando nell’operazione interviene una merchant bank, questa può assumere il ruolo di mero collocatore dei titoli sul mercato o di primo sottoscrittore degli stessi. In ogni caso, essa si occupa degli aspetti connessi al classamento degli strumenti cartolari emessi dallo SPV, e svolge normalmente il ruolo di lead manager del consorzio costituito per la sindacazione dell’ABS. Il successo dell’operazione di collocazione sul mercato dei titoli spesso dipenderà dal prestigio della merchant bank, dal suo coinvolgimento nell’operazione e dal rapporto che instaura con la società cessionaria dei crediti.
Nel caso in cui sia la società cessionaria ad occuparsi direttamente della collocazione sul mercato dei titoli, essa può rivolgersi ad investitori istituzionali o ad intermediari finanziari. Tendenzialmente, i piccoli investitori non sono interessati a tale operazione, in quanto essa si presenta estremamente sofisticata e rischiosa; mentre le figure professionali esperte del settore, organizzate e dotate di strutture di analisi e previsione, per diversificare il proprio portafoglio titoli sono solite acquistare titoli facilmente negoziabili e aventi rendimenti competitivi con le alternative di mercato. Le stesse aziende bancarie, spesso originators, si sono dimostrate, nell’esperienza angloamericana, gli operatori più attenti anche in funzione di acquirenti dei titoli emessi. Ciò in quanto le banche, investendo in titoli rappresentativi di attivi cartolarizzati, possono colmare eventuali contrazioni nella domanda di credito o, comunque, selezionare allocazioni di patrimonio eccedente rispetto agli obiettivi perseguiti, garantendosi in ogni caso la possibilità di liquidare i valori mobiliari per effettuare erogazioni dirette alla propria clientela nelle fasi di sviluppo .
La società di cartolarizzazione, stando a quanto previsto dall’art. 2, comma 6, delle legge in commento, dovrà, infine, affidare l’attività di riscossione dei crediti ceduti e le operazioni di cassa ad un servicer. Questo sarà, ai sensi della norma citata, un intermediario finanziario iscritto nell’albo speciale di cui all’art. 107 del Testo unico bancario ovvero un istituto bancario, e per tale servizio otterrà una provvigione che dipende, di regola, dall’ammontare dei crediti oggetto dell’operazione. Ad intermediari finanziari e istituti bancari coinvolti, lo stesso art. 2, comma 6, affida la responsabilità di verificare che «le operazioni siano conformi alla legge e al prospetto informativo».

1.8. (L’attività svolta dalle c.d. società per la cartolarizzazione). All’art. 3, 1° comma, della legge 130/99 si dispone che «la società cessionaria, o la società emittente titoli se diversa dalla società cessionaria, hanno per oggetto esclusivo la realizzazione di una o più operazioni di cartolarizzazione dei crediti». Sul requisito rappresentato dall’esclusività dell’oggetto ci si già intrattenuti e altro si dirà a proposito di separazione patrimoniale. Qui interessa rilevare come, dal combinato disposto dei commi 1 e 2 dell’articolo citato, pare che la legge preveda la possibilità, per la società cessionaria, di svolgere più operazioni di cartolarizzazione anche contemporaneamente. E’ stato, in proposito, rilevato che la gestione di più portafogli di attività potrebbe causare confusioni rischiose nel patrimonio della società cessionaria, nel caso in cui alcuni dei crediti in questione dovessero rimanere insoluti al di là di ogni previsione e la cessionaria dovesse trovarsi impossibilitata a soddisfare le aspettative dei suoi creditori .
Gli investitori, a fronte di tale confusione, assumerebbero non soltanto il rischio direttamente correlato ai crediti oggetto dei titoli rappresentativi di loro proprietà, bensì anche quello dipendente dagli altri portafogli cartolarizzati dalla stessa società cessionaria. Ciò appare grave, in quanto – mentre riguardo ai primi l’investitore conosce il rating, assume consapevolmente il rischio, e accetta, per acquisire detti titoli, di pagare un corrispettivo a quello inversamente proporzionale – riguardo agli altri portafogli cartolarizzati, estranei al suo investimento, egli non ha alcuna possibilità preventiva di controllo e non esprime alcun consenso. A tal proposito sembra necessario segnalare che la legge, al fine di evitare detta confusione, all’art. 3, comma 2, dispone che: «I crediti relativi a ciascuna operazione costituiscono patrimonio separato a tutti gli effetti [….] da quello relativo alle altre operazioni. Su ciascun patrimonio non sono ammesse azioni da parte di creditori diversi dai portatori dei titoli emessi per finanziare l’acquisto dei crediti stessi».
Tuttavia, i dubbi ora espressi si rafforzano se si fa riferimento all’esperienza che in Italia ha riguardato il dissesto delle c.d. Società di intermediazione mobiliare . Anche in materia di SIM, la legge garantisce la separazione teorica di ognuno dei patrimoni gestiti rispetto agli altri ed anche rispetto a quello della stessa SIM, ma quando alcune società di intermediazione sono state coinvolte in vicende di insolvenza, dissesto, fallimento, la giurisprudenza ha spesso trovato difficoltà a rispettare tale separazione . In definitiva, consentire alla società cessionaria di svolgere un’attività imprenditoriale autonoma significa esporla al rischio d’insolvenza e, per quanto detto, al pericolo di contaminazioni, ovvero confusioni, tra il patrimonio suo proprio e i portafogli dei crediti cartolarizzati; tale pericolo aumenta se le operazioni di cartolarizzazione sono più di una.
La situazione è ulteriormente aggravata da un’altra considerazione. La società cessionaria, a norma di legge, può svolgere attività finanziarie parallele o strumentali all’operazione di cartolarizzazione. Essa, ai sensi dell’art. 2, può compiere attività finanziarie funzionali alla soddisfazione dei crediti vantati dai titolari dei valori mobiliari emessi, nonché «reinvestire in altre attività finanziarie i fondi derivanti dalla gestione dei crediti ceduti non immediatamente impiegati per il soddisfacimento dei diritti incorporati nei titoli». Tale ultima possibilità risulta particolarmente inquietante, in quanto rispetto ad essa la cessionaria pare disporre di una discrezionalità pressoché assoluta, vista l’assenza di parametri di riferimento o di limiti al reinvestire i fondi non impiegati. In altre parole, sul portafoglio di attivi che, in origine, avrebbe dovuto garantire i soli portatori dei titoli ad esso correlati, finiscono per gravare i crediti maturati anche da altri soggetti, ed a diverso titolo, nei confronti della società.

2.1. (La separazione patrimoniale in capo alla cessionaria). In un’operazione di cartolarizzazione, al fine di garantire gli investitori che acquistano i titoli emessi dalla società cessionaria (ovvero da un’emittente diversa dalla cessionaria), è fondamentale che il portafoglio ceduto si separi dal patrimonio del cedente e diventi insensibile alle successive vicende economiche di quello . Tale risultato, nel mondo angloamericano, si raggiunge attraverso la creazione di un fondo apposito (che può essere tanto lo SPV quanto il trust) nel quale detto portafoglio viene segregato. Il fondo non è un soggetto giuridico dotato di autonomia, non possiede un suo patrimonio diverso dal portafoglio stesso, non svolge attività imprenditoriale e normalmente viene adoperato per una sola operazione di cartolarizzazione, al termine della quale si estingue. In virtù di tali caratteristiche, esso non rischia fallimenti o confusioni/commistioni patrimoniali e ciò garantisce notevolmente gli investitori.
In Italia, in forza del modello determinato dalla nuova legge sulla cartolarizzazione dei crediti, la situazione si presenta notevolmente diversa rispetto a quella appena descritta, in quanto il soggetto cessionario è dotato di piena personalità giuridica ed è organizzato in forma di società di capitali. Ciò, come già rilevato, implica che esso abbia un proprio capitale, un proprio oggetto sociale, una (più o meno) complessa struttura amministrativa, uno scopo di lucro, un’autonoma capacità imprenditoriale. Tutte cose che lo sottopongono al rischio di dissesto e dunque di fallimento. Il portafoglio degli attivi ceduti, pur uscendo dal patrimonio dell’originator, entra in quello della società cessionaria e rischia di subire gli effetti delle vicende che travolgono quest’ultima. E’ per tale ragione che la legge, al 1° comma dell’art. 3, prevede che la società cessionaria-cedente debba avere come unico oggetto sociale l’attività di cartolarizzazione. L’aver imposto alla società di non svolgere attività diverse dalla cartolarizzazione, ma averle consentito di realizzare più operazioni di cartolarizzazione anche contemporaneamente, non mette gli investitori al riparo dai rischi che sono stati evidenziati nel precedente paragrafo. Consapevole di tutto ciò, il legislatore ha previsto, al 2° comma dello stesso articolo, che «i crediti relativi a ciascuna operazione costituiscono patrimonio separato a tutti gli effetti da quello della società e da quello relativo alla altre operazioni» .
Tale disposizione trova un suo precedente storico nell’art. 19 del d. lgs. 415 del 23 luglio 1996, che ha modificato, in alcune sue parti, la legge n. 1 del 1991, istitutiva delle SIM. L’art. 19, rubricato «separazione patrimoniale», al suo primo comma recita: «Nella prestazione dei servizi previsti dal presente decreto, gli strumenti finanziari e il denaro dei singoli clienti a qualunque titolo detenuti dalla impresa di investimento, nonché gli strumenti finanziari dei singoli clienti a qualunque titolo detenuti dalla banca, costituiscono patrimonio distinto a tutti gli effetti da quello dell’intermediario e da quello degli altri clienti […]». L’art. 19 mira a realizzare un’ipotesi di patrimonio separato del tutto simile a quella di cui alla più recente legge in esame, considerato che, pur essendo, nei casi limite, la titolarità di tale patrimonio imputabile soltanto alla società gerente (anche a titolo di proprietà ), tale patrimonio non è aggredibile da parte dei creditori della stessa. Secondo parte della dottrina, l’assetto realizzato dall’art. 19 non è realmente innovativo, perché una corretta interpretazione della legge 1 del 1991 avrebbe dovuto, già prima del 1996, far ritenere che il patrimonio (dei clienti), pur in proprietà della società gerente, resistesse alle rivendicazioni dei creditori di questa .
Un’altra norma molto simile alle due messe a confronto è quella contenuta nell’art. 3, comma 2, della legge n. 77 del 1983, introduttiva dei fondi comuni di investimento . Tale norma dispone che il patrimonio del fondo gestito dalla società «è distinto» a tutti gli effetti da quello della società di gestione, da quello dei partecipanti e da eventuali altri fondi amministrati dalla società di gestione . Il fondo è quindi insensibile alle azioni dei creditori della società gerente, mentre i creditori dei singoli partecipanti possono rivalersi solo sui certificati di partecipazione di questi ultimi . Identica ratio ispira l’art. 4, 2° comma, del d. lgs. 21 aprile 1993, n. 124 (come modificato dalla legge 8 agosto 1995) nel quale si consente a società o enti pubblici di formare, con apposita deliberazione, un «patrimonio di destinazione, separato ed autonomo», nell’ambito del patrimonio della medesima società. Tal’ultima previsione, rispetto alle due precedenti, si segnala per la presenza dell’aggettivo “autonomo” riferito al patrimonio oggetto del fondo, che dunque non viene solo individuato e distinto, ma anche separato.
Le quattro disposizioni citate apportano deroghe espresse al principio stabilito dall’art. 2740 c.c., nel 1° comma del quale si prevede che il debitore debba rispondere dell’adempimento delle sue obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri . Il principio in esame mira a tutelare i creditori che, in caso di inadempimento, vengono ammessi ad agire esecutivamente, per ottenere il soddisfacimento delle proprie ragioni, su tutti i beni che appartengono al debitore . Tale garanzia viene considerata dal codice civile sia sotto il profilo dell’attuazione della responsabilità del debitore, una volta che non si sia realizzato l’adempimento, sia sotto il profilo della conservazione della garanzia medesima, a prescindere dall’eventuale inadempimento, attraverso i mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale. Il secondo comma dello stesso articolo prevede la possibilità di derogare per legge a quanto disposto nel primo comma e consente, dunque, al legislatore di creare ipotesi di separazione.

2.2. (Le azioni creditorie sul patrimonio cartolarizzato). La seconda ed ultima parte del 2° comma dell’art. 3 concreta quanto espresso nel 1° comma ed attua quanto già annunciato all’art. 1, comma 1, lett. b) . Il principio della separazione, già enunciato in termini teorici, viene infatti spiegato operativamente, in quanto nella norma citata (2° comma, art. 3), si legge che «su ciascun patrimonio non sono ammesse azioni da parte di creditori diversi dai portatori dei titoli emessi per finanziare l’acquisto dei crediti stessi». Anche detta norma trova suo precedente storico nell’art. 19 del d.lgs. n. 415/96, in tema di SIM, il quale – nella parte successiva a quella riportata nel precedente paragrafo – dispone che sul «patrimonio non sono ammesse azioni dei creditori dell’intermediario o nell’interesse degli stessi, né quelle dei creditori dell’eventuale depositario o subdepositario o nell’interesse degli stessi. Le azioni dei creditori dei singoli clienti sono ammesse nei limiti del patrimonio di proprietà di questi ultimi».
In via interpretativa, può trarsi dal 2° comma dell’art. 3 un’indicazione precisa: i capitali ricevuti dalla società di cartolarizzazione a soddisfazione dei crediti acquistati nel corso di una singola operazione – e facenti parte di un unico portafoglio posto a garanzia di un certo numero di valori mobiliari emessi in occasione di detta operazione – non possono essere utilizzati per soddisfare le istanze creditorie di soggetti diversi dai portatori dei suddetti titoli. In altre parole, ciascuna vicenda di cartolarizzazione deve rimanere ben distinta da tutte le altre, in quanto il singolo patrimonio non è aggredibile, né da parte dei creditori c.d. personali del cessionaria-emittente, né da parte di chi vanta crediti nei confronti di un diverso patrimonio, pur gestito dalla stessa società. Per realizzare concretamente tale duplice separazione bisognerà far ricorso a tecniche già collaudate che consentano, in qualunque momento, di individuare un portafoglio rispetto agli altri. Può valere, in proposito, quanto la legge italiana prescrive per i titoli di credito costituiti in fondo patrimoniale: il vincolo può risultare rendendo i titoli nominativi, annotandolo, ovvero «in qualunque altro modo» (art. 167, ultimo comma, c.c.) .
In realtà, il comma 2° dell’art. 3, nel disciplinare le pretese creditorie sui diversi portafogli gestiti, dimentica di prendere in considerazione le pretese di altri soggetti che cooperano con la cessionaria. Tra questi, ad esempio, la società di rating, la compagnia assicuratrice ed il servicer, quando gli impegni nei loro confronti non sono stati assunti direttamente dall’originator, nel qual caso toccherà a questo corrispondere quanto dovuto . Il non aver previsto, tra i soggetti aventi diritto su quanto ricavato dalla riscossione dei crediti, i creditori c.d. personali del cessionario-emittente comporterà sicuramente confusione in sede di applicazione della legge. Infatti, all’art. 1, comma 1, lett. b), è al contrario disposto che le somme corrisposte dal debitore o dai debitori ceduti siano, tra l’altro, destinate ai «costi dell’operazione». C’è dunque, in tal senso, una mancanza di coordinamento tra gli artt. 1 e 3. Tale contrasto potrà essere risolto dalla giurisprudenza che verrà chiamata a pronunciarsi sul punto. Una soluzione consiste nell’ammettere che i soggetti che hanno collaborato all’operazione (contemplati nell’art. 1, ma esclusi nell’art. 3) possano vantare pretese esclusivamente sul patrimonio “personale” della società per la cartolarizzazione, la quale, per confidare nell’intrapresa di rapporti professionali, dovrà, di conseguenza, dotarsi di un patrimonio sufficiente a garantire i terzi. La soluzione opposta, volta a garantire tutti i terzi creditori della società, non può tuttavia essere scartata e pare anzi essere da preferire, qualora si ritenga che quella contenuta dall’art. 1 sia una norma programmatica e di principio, mentre quella dell’art. 3 sia una norma meramente attuativa. Tale seconda strada, però, rischierebbe concretamente di compromettere l’autonomia di cui ogni portafoglio gode rispetto agli altri e rispetto al patrimonio societario.
La situazione si complica nel caso in cui la società per la cartolarizzazione abbia difficoltà a soddisfare un proprio debito. Mentre, infatti, gli investitori – qualora l’operazione di riscossione dei crediti, compresi nel portafoglio sul quale facevano affidamento, non sia andata a completo buon fine – troveranno soddisfazione in forza delle garanzie predisposte dalla cessionaria, ovvero, in mancanza di garanzie, si dovranno accontentare di quanto contenuto nel loro portafoglio di riferimento (questa, del resto è la caratteristica della ABS), i creditori diretti della società possono farne dichiarare l’insolvenza ed agire in giudizio utilizzando ogni strumento del nostro ordinamento, nei limiti previsti dall’art. 5 della legge in esame , con ricadute imprevedibili sull’intera vicenda e su tutti i rapporti instaurati dalla stessa società .

2.3. (La separazione patrimoniale nel d.lgs. 58/98). La separazione patrimoniale, descritta negli ultimi due paragrafi, che si realizza in capo alla società per la cartolarizzazione dei crediti in forza del comma 2 dell’art. 3 della legge in esame, merita di essere rapportata, oltre che ai precedenti di cui si è detto (SIM e fondi comuni di investimento), alla più generale disciplina contenuta nell’art. 22 del d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, Testo unico dell’intermediazione finanziaria, emanato in attuazione della delega contenuta negli artt. 8 e 21 della legge 6 febbraio 1996, n. 52. La disposizione citata rappresenta un’importante novità nell’ordinamento italiano, in quanto applica il concetto della separazione, già operativo nei mercati finanziari, ad un’ampia categoria di operatori ed a garanzia di un ampio numero di operazioni, ed inoltre disciplina, con relativa puntualità ed aspirazioni di completezza, la delicata questione.
La recente normativa, a fronte della diffusa esigenza di garantire gli investimenti, testualmente prevede che «nella prestazione dei servizi di investimento e accessori, gli strumenti finanziari e le somme di denaro dei singoli clienti, a qualunque titolo detenuti dall’impresa di investimento, dalla società di gestione del risparmio o dagli intermediari finanziari iscritti nell’elenco di cui all’art. 107 del Testo unico bancario, nonché gli strumenti finanziari dei singoli clienti a qualsiasi titolo detenuti dalla banca, costituiscono patrimonio distinto a tutti gli effetti da quello dell’intermediario e da quello degli altri clienti». La stessa regola vale anche per gli strumenti finanziari dei clienti detenuti dalle banche, ma non per il denaro, la cui proprietà, al seguito del deposito (c.d. irregolare, perché su beni fungibili), si è trasferita alla stessa banca, che assume soltanto un obbligo di restituzione, ai sensi dell’art. 1834 c.c.
La disciplina disposta dall’art. 22 continua prevedendo che «su tale patrimonio non sono ammesse azioni dei creditori dell’intermediario o nell’interesse degli stessi. Le azioni dei creditori dei singoli clienti sono ammesse nei limiti del patrimonio di proprietà di questi ultimi.» Tale disposizioni traduce in termini concreti quanto esposto a livello teorico nella prima parte della norma in esame. Oltre a non ammettersi azioni dei creditori dell’intermediario, non sono neppure ammesse azioni da parte dei creditori dell’eventuale banca depositaria, né da parte di quest’ultima (le somme affidate ad una SIM vanno depositate presso una banca). Inoltre, sugli strumenti finanziari dei clienti accentrati presso la Monte Titoli, la stessa società di gestione accentrata non può agire neppure in compensazione, né possono agire i suoi creditori.
Non riguarda le azioni dei creditori, ma tende anch’essa ad evitare la confusione dei patrimoni, l’altra regola per la quale, salvo il consenso scritto dei clienti, le SIM e gli altri intermediari «non possono utilizzare, nell’interesse proprio o di terzi, gli strumenti finanziari di pertinenza dei clienti, da essi detenuti a qualsiasi titolo», né – ma ad eccezione delle banche – «le disponibilità liquide degli investitori» (art. 22, comma 3).
L’importanza delle regole suddette emerge nell’ipotesi di insolvenza dell’intermediario. Qualora, a causa della confusione, non fosse possibile risalire all’effettiva titolarità dei portafogli, si correrebbe il rischio di travolgere l’autonomia patrimoniale che dovrebbe caratterizzare ogni investimento rispetto agli altri, e tutto ciò con pregiudizio dei clienti, i quali, a seguito della sottoposizione del gestore alla liquidazione coatta amministrativa, devono essere iscritti, per la restituzione degli strumenti finanziari e del denaro, in un’apposita e separata sezione dello stato passivo (art. 57, comma 4) .
Ulteriore conferma dell’importanza che il legislatore riconosce alla separazione patrimoniale viene dalla lettura dell’art. 168 dallo stesso d.lgs. 58/98, nel quale si prevede una sanzione penale per il reato di confusione di patrimoni, che sussiste ogni qual volta, al fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, nell’esercizio di servizi di investimento o di gestione collettiva del risparmio, ovvero nella custodia degli strumenti finanziari e delle disponibilità liquide di un OICR, si violino le disposizioni concernenti la separazione patrimoniale arrecando danno agli investitori . La sanzione prevista, salvo che il fatto costituisca reato più grave, consiste nell’arresto da sei mesi a tre anni e nell’ammenda da lire dieci milioni a lire duecento milioni .
2.4. (La pseudoseparazione nel patrimonio della fiduciaria). La società fiduciaria è un utile strumento di gestione patrimoniale, tramite il quale è possibile intestare un certo bene ad un soggetto diverso da quello che ne resta proprietario sostanziale . Per comprendere il senso e la portata della separazione patrimoniale disposta dall’art. 3 della nuova legge sulla cartolarizzazione dei crediti, può essere utile verificare se e come tale principio ha operato in ambito fiduciario .
Con la legge n. 1/91, come anticipato, si è affermato per le società fiduciarie e le SIM il principio, operativo anche per il caso di procedure concorsuali, della separazione tra il patrimonio della fiduciaria e quello dei fiducianti . La legge citata presuppone l’applicazione di un meccanismo che si basa sulla costituzione di appositi conti di gestione per conto terzi sui quali debbono essere immessi i valori mobiliari gestiti. Essa prevede anche che i conti di coloro che investono tramite la società siano predisposti singolarmente e siano trasparenti, ed inoltre dispone che, per svolgere l’attività di intermediazione mobiliare come SIM o fiduciaria, necessita l’iscrizione all’albo appositamente creato e assoggettato al controllo della Consob. Tali disposizioni valgono ad assicurare che non vi possa essere confusione tra il patrimonio investito dai clienti e quello proprio della società autorizzata ad operare, sia essa una SIM ovvero una fiduciaria, sebbene l’applicazione del principio, sul piano pratico, sconti incertezze e si manifesti difficoltosa e problematica .
Secondo parte della dottrina, la struttura della società fiduciaria consentiva, già prima dell’entrata in vigore della legge 2 gennaio 1991 n. 1, di realizzare, in capo al soggetto formalmente titolare dei beni, una separazione tra il suo patrimonio e quello che gli spetta solo in qualità di gestore. Ciò in quanto: 1) già la legge 29 maggio 1942, n. 239, all’art. 1, aveva introdotto, fra intestazione e proprietà, una separazione attuata individuando nei fiducianti gli “effettivi proprietari” dei titoli intestati alla società fiduciaria ; 2) la legislazione fiscale in materia, negli anni, aveva sostanzialmente parificato l’intestazione fiduciaria e l’interposizione di persona.
La Cassazione sul punto ultimamente ha precisato – in una fattispecie alla quale non era applicabile la richiamata normativa del 1991 – che, pur in mancanza di una specifica individuazione di detti beni, qualora l’esistenza del rapporto fiduciario risulti da scrittura avente data certa riferibile a beni intestati, il rapporto tra societaria e fiducianti si sostanzia nella mera intestazione, alla prima, di beni appartenenti, effettivamente, ad altri proprietari . La proprietà della società, pur non potendo dirsi fittizia, viene – secondo la Suprema Corte – ad assumere connotazione meramente formale, poiché “il patto fiduciario non ha mero carattere obbligatorio” e la divergenza del mezzo rispetto al fine perseguito dalle parti non assume rilevanza sul piano giuridico.
In forza di tali considerazioni la Cassazione afferma che il fiduciante, nonostante la formale intestazione dei beni alla fiduciaria, ne conservi la proprietà sostanziale e sia, quindi, in grado di disporne direttamente, senza necessità di alcun formale ritrasferimento dei titoli da parte della società . Ciò comporta che questi possa far valere, nei confronti degli organi della eventuale procedura concorsuale instauratasi contro la società, il diritto alla restituzione dei beni in precedenza ad essa affidati, dovendo ritenersi, all’uopo, sufficiente la dimostrazione di una situazione idonea ad impedire che la cosa della quale si reclami la restituzione si sia confusa con il patrimonio del fallito, per essere entrata a far parte dei beni di sua proprietà. Quanto detto dipende dal fatto che, per l’acquisto della proprietà da parte di chi riceve in deposito una quantità di denaro o di altre cose fungibili, è pur sempre necessario che alla detenzione si aggiunga (quantomeno implicitamente) la facoltà di servirsi di tale bene – non essendo la natura fungibile sufficiente, di per sé sola, a determinare l’effetto traslativo –; mentre le società fiduciarie, non potendo disporre o, comunque, utilizzare nel proprio interesse i beni loro affidati, risultano, in concreto mere depositarie dei beni. Tali beni, dunque, costituiscono una massa patrimoniale distinta, a tutti gli effetti, dal “personale” patrimonio del depositario e, come tale, sottratta alle azioni esecutive degli eventuali creditori. Nemmeno l’eventuale commistione dei conti tra più fiducianti sarebbe idonea, di per sé, – sempre secondo la Cassazione – ad impedire il riconoscimento della separatezza dei beni intestati alla società nell’interesse di tali soggetti .
La giurisprudenza successiva all’entrata in vigore della legge sulle SIM ha mostrato intenzioni garantiste verso gli investitori, ma allo stesso tempo ha scontato oggettive difficoltà pratiche . Si è, infatti, ritenuto che il curatore del fallimento di una fiduciaria, sentito il commissario restitutore (il riferimento è all’art. 13 della legge SIM), debba tenere distinta la massa attiva e passiva dei creditori-clienti da quella dei creditori-ordinari della SIM, giovandosi della documentazione acquisita e includendo nella prima «tutto quanto sia comunque di provenienza dei clienti o risalente ad essi» . Allo stesso tempo, tuttavia, il legislatore non ha perseguito la strada della chiarezza e, ad esempio, con il d.lgs. 23 luglio 1996, n. 415, pur riconoscendo nella relazione al provvedimento che esiste «la nuova categoria dei clienti creditori aventi diritto alla restituzione degli strumenti finanziari che costituiscono patrimonio separato da quello delle banche», attraverso l’art. 64, comma 17, ha modificato l’art. 91, 3° comma, del Testo unico bancario, nel senso che, se la separazione patrimoniale non è rispettata, i clienti creditori concorrono con la generalità dei chirografari.

2.5. (Il trust come strumento di segregazione). L’esperienza internazionale dimostra che nelle più disparate operazioni di securitisation può, e nella pratica ciò avviene spesso, essere utilizzato un trust per effettuare la separazione reale del portafoglio di attivi ceduti dal patrimonio dell’originator .
Il trust è, da circa vent’anni, oggetto della crescente attenzione degli operatori anche di ordinamenti di civil law. Ciò in quanto, attraverso la sua struttura, è possibile ottenere un effetto particolarmente appetito nelle operazioni e nelle situazioni più disparate, la c.d. segregazione patrimoniale del trust fund . In altre parole, utilizzando un trust, non solo è possibile separare uno qualsiasi dei propri beni, ovvero una pluralità di ricchezze, dal proprio patrimonio e dalla propria sfera giuridica, in modo tale che le vicende successive non coinvolgano le sostanze costituenti il trust fund, ma è anche possibile impedire (quasi) a chiunque di avanzare pretese su detto fondo, realizzando il c.d. effetto segregativo . Il fondo non è aggredibile, né dai creditori del settlor (così è definito in common law l’originario proprietario), i cui diritti verso quest’ultimo siano sorti successivamente al trasferimento (a meno che essi non riescano ad esperire l’azione revocatoria per preordinata sottrazione di garanzia patrimoniale ); né dai creditori dei beneficiari che vantino un mero diritto di credito non ancora esigibile nei confonti del trustee; né infine dai creditori del trustee, in quanto i beni a lui trasferiti a titolo di trust property, in realtà, mai si confondono con il suo patrimonio personale . Tali beni non entrano nemmeno nella successione del trustee, e non ricadono nell’eventuale regime di comunione tra i coniugi. Essi, dunque, non subiscono gli effetti di un dissesto patrimoniale, né di un fallimento, del trustee, come del settlor. Tutto ciò si giustifica teoricamente facendo ricorso al concetto di proprietà funzionalizzata, che viene utilizzato per qualificare il diritto che si rinviene in capo al trustee.
I destinatari dei benefici evenienti dalla gestione del trust fund sono i c.d. beneficiari, i quali vantano nei confronti del trustee quello che, in termini civilistici, potremmo definire un diritto di credito . Al termine della durata del trust (ovvero anche periodicamente nelle more della gestione), infatti, il trustee deve trasferire loro, secondo le modalità indicate dal settlor, quanto trovasi nel fondo. I creditori dei beneficiari non potranno, come detto, aggredire il patrimonio costituito in trust, e potranno solo – ove il beneficiario-debitore non si attivi per ottenere quanto dovuto – agire in via surrogatoria direttamente contro il trustee. Sulla base delle considerazioni svolte, risulta evidente come – prima che il credito dei beneficiari diventi esigibile – gli unici creditori che abbiano diritto a soddisfarsi direttamente sul trust fund siano i terzi portatori di interessi che trovano titolo in rapporti instaurati dal gestore in qualità di trustee; questi vanno, dunque, distinti dai suoi creditori personali e sono, invece, da considerare creditori del trust.
In operazioni di securitisation realizzate in ordinamenti dove opera lo SPV classico, attraverso l’utilizzazione del veicolo – società o trust fund che sia – si realizza una tipica vicenda di trust nella quale i crediti ceduti vengono segregati. E ciò pure se – dopo aver separato il portafoglio dal patrimonio dell’originator, attraverso la cessione allo SPV, essendo quest’ultimo incapace, per sua stessa natura, di contrarre obbligazioni e assumere posizioni debitorie – potrebbe non essere strettamente necessario separare detto portafoglio dal patrimonio restante dello SPV, anche in virtù del fatto che lo Special Purpose Vehicle non ha un proprio patrimonio indipendente rispetto ai crediti e non è utilizzato per svolgere più operazioni. Il trasferimento degli attivi ceduti allo SPV – anche quando questo non sia organizzato in forma di trust e la sua costituzione non sia accompagnata da quella di un trust – è sempre, in altre parole, destinato a realizzare la funzione di garanzia propria del trust.
Diversa pare presentarsi la situazione in Italia, dove si apprestano ad operare come SPV soggetti dotati di propria capacità imprenditoriale, autonomo patrimonio, piena personalità giuridica, scopo di lucro e struttura societaria. In tali circostanze potrebbe risultare molto utile riuscire a rendere il patrimonio di crediti cartolarizzato impermeabile alle vicende di detta società. Al fine di rafforzare la separazione prevista dal legislatore all’art. 3, 2° comma, della legge in commento, ed allo scopo di azzerare i rischi di confusione patrimoniale, potrebbe essere molto utile, anche in Italia, utilizzare il trust nel corso di operazioni di cartolarizzazione dei crediti .

2.6. (Operatività del trust nell’ordinamento italiano). Dal 1° gennaio 1992 il trust è operativo anche nel nostro ordinamento, in virtù dell’entrata in vigore della Convenzione dell’Aja sulla legge regolatrice e sul riconoscimento dei trusts, ratificata dal legislatore italiano con la legge n. 364 del 16 ottobre 1989 . La Convenzione, approvata il 20 ottobre del 1984, fu adottata il 1° luglio 1985 durante i lavori della quindicesima sessione della Conferenza permanente di diritto internazionale privato dell’Aja, ed è entrata in vigore solo il 1° gennaio 1992 poiché il suo art. 30 disponeva che «il primo giorno del terzo mese dopo il deposito del terzo strumento di ratifica» essa avrebbe avuto piena efficacia .
La scelta di dedicare al trust una sessione della Conferenza dell’Aja derivava dall’esigenza di superare le difficoltà connesse all’individuazione della legge applicabile ed al riconoscimento di un istituto assai diffuso nella prassi degli ordinamenti di common law, ma pressoché ignorato in tutti gli altri. In Italia, ad esempio, la giurisprudenza negli ultimi cento anni aveva respinto l’operatività dell’istituto nel nostro ordinamento, e ciò sulla base di considerazioni che afferivano alla tipicità dei diritti reali, alla lesione dei diritti ereditari, e alla violazione di altri principi fondanti dei sistemi di diritto civile . Dopo l’emanazione del testo normativo adottato all’Aja, molti legislatori nazionali – nell’attesa di ratificare la Convenzione, o indipendentemente da essa – hanno regolato l’istituto del trust attraverso normative interne. Si è così aperta una vera e propria corsa al trust. Ciò in quanto detto strumento non soltanto si dimostra utile veicolo di segregazione, ma anche duttile e pregevole meccanismo di gestione dei rapporti intercorrenti tra più soggetti. Introdurre il trust in un sistema ha, dunque, significato, anche per numerosi paesi di diritto civile, dotarsi di uno istituto destinato ad attirare capitali.
L’Italia è probabilmente l’unico paese che abbia ratificato la Convenzione e non abbia anche provveduto ad emanare una normativa interna che regolamenti il trust; ciò implica che i trusts operanti nel nostro ordinamento siano disciplinati dalla normativa convenzionale e dalla legge interna di uno qualsiasi degli stati che ne posseggono. La Convenzione, infatti, prevede che il settlor possa scegliere la legge applicabile al trust che egli stesso ha creato, e, in assenza di tale scelta, appresta dei sistemi sussidiari per individuarla. Il ritardo del nostro legislatore ad adottare una normativa interna ha fatto sì che parte della dottrina sollevasse remore intorno alla compatibilità del trust con alcune norme inderogabili del sistema civile italiano e al trattamento fiscale del nuovo istituto. La questione più dibattuta riguarda l’operatività del c.d. trusts interni . Si è, in altre parole, discusso della possibilità di istituire un trust che abbia un settlor italiano, un trustee italiano, beni ubicati in Italia, e beneficiari italiani. Secondo parte della dottrina, a tale fattispecie, essendo qualificabile come interamente nazionale, non si applicherebbe la Convenzione dell’Aja che, in quanto normativa di diritto internazionale privato, riguarderebbe solo trusts internazionali. Tale tesi è stata, con diverse argomentazioni, contestata. In particolare, si è detto che la Convenzione non distingue mai il trust internazionale da quello interno, ed inoltre che, dovendosi applicare al trust italiano, per forza di cose, una legge straniera, ciò basterebbe a qualificare come internazionale la fattispecie . Sul punto non è dato, in questa sede, di indugiare oltre .
La Convenzione copre l’operatività dei soli trusts espressi, tra i quali vanno annoverati anche i testamentary trusts, e non riguarda, dunque, gli statutory, gli implied ed i resulting trusts, figure tipiche operanti negli ordinamenti di derivazione anglosassone. Sulla natura giuridica dell’express trust, che non sia anche testamentary, si sono sviluppate diverse teorie. Si è detto che l’atto istitutivo del trust sarebbe un contratto tra settlor e trustee, ma pare più corretto ricondurne la struttura ad un negozio complesso costituito da un atto unilaterale del settlor, istitutivo del trust, ed un contratto esecutivo, con il quale settlor e trustee si trasferiscono la proprietà dei beni oggetto dell’operazione e così riempiono di contenuti il trust fund e sostanziano la posizione obbligatoria del trustee che, altrimenti, resterebbe solo formale.
In seguito all’entrata in vigore della Convenzione, si sono registrati in Italia alcuni importanti interventi finalizzati a consentire una piena ed efficace ricezione dell’istituto . Tra gli altri, va segnalato lo studio condotto dall’ABI e pubblicato nel dicembre del 1996, avente ad oggetto il trust ed in particolare «le forme di utilizzo che maggiormente possono interessare coloro che operano nel settore bancario e finaziario» . Lo studio evidenzia come il trust sia applicabile nel campo finanziario in caso di emissioni obbligazionarie – in particolare eurobonds – nonché, in operazioni complesse quali quelle denominate project finance, in funzione di escrow account. Alla lettera “D” del documento riepilogativo, si legge che nelle operazioni di cartolarizzazione, il trust può fungere da SPV, cioè da società veicolo, cui vengono trasferiti dalla banca i crediti da cartolarizzare: il trustee provvede a frazionare i crediti acquistati e a collocarli sul mercato.
Per realizzare concretamente la segregazione patrimoniale tipica di ogni operazione di trust, l’ABI consente al trustee di aprire un conto corrente a sé intestato nella qualità di trustee o intestato direttamente al trust. Preliminare all’accensione di tale conto è la verifica dei poteri del trustee mediante l’analisi del documento istitutivo del trust. A questo riguardo si osserva che l’interesse della banca alla visione di tale atto (ed alla acquisizione di esso) è finalizzato ad accertare quanto sia funzionale all’apertura ed alla gestione del conto corrente, sicché alcune parti del documento (ad esempio l’indicazione dei beneficiari) non hanno interesse per la banca e il trustee può legittimamente non comunicarle. Si può ritenere, inoltre, che in tanto la banca possa considerare separato il saldo del conto del patrimonio personale del trustee in quanto abbia controllato che esistano, ai sensi della Convenzione dell’Aja, i presupposti per il riconoscimento. Secondo una diversa e, per l’ABI, preferibile ricostruzione della problematica, la banca non sarebbe tenuta a nessun controllo e si dovrebbe attenere esclusivamente a quanto il trustee dichiara, ma con tale soluzione chi scrive non concorda.
La scarsa utilizzazione che il trust ha avuto in Italia anche dopo il 1° gennaio 1992 sconta, senza dubbio, i dubbi – già accennati – di afferenza prettamente civilistica, ma è dovuta principalmente alle incertezze di carattere fiscale. Fin quando l’operatore non potrà contare su un regime tributario certo applicabile alle diverse vicende di un’operazione di trust, preferirà utilizzare altri istituti ovvero, se tecnicamente possibile, costituire trusts i cui effetti fiscali ricadano all’estero . Per ovviare, a tali incertezze, in attesa dell’auspicato intervento legislativo, il comitato di coordinamento del Secit ha emanato nel 1998 una delibera con cui ha tentato di fare chiarezza in materia . Il regime approntato, sul quale non ci si può intrattenere, finisce per risultare oneroso e dunque, probabilmente, scoraggerà ulteriormente nell’immediato futuro l’utilizzazione di trusts con effetti fiscali in Italia .

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